Pace: le ragioni del colibrì

Ora che la guerra In Ucraina è scoppiata è giusto protestare e scendere in piazza contro l’aggressione di un Paese sovrano e per una soluzione negoziata, dopo il ritiro delle truppe russe.

Stretti dall’angoscia di un conflitto sanguinoso e dagli sviluppi imprevedibili, ci sentiamo comunque nella necessità di agire, un po’ con lo stato d’animo del colibrì della fiaba africana che riconosce come suo dovere portare la sua goccia d’acqua, pur nella consapevolezza che il suo gesto non sarà sufficiente a spegnere l’incendio della foresta.

Ma nonostante la paura e l’incertezza sul nostro stesso futuro dobbiamo avere un pensiero lungo, che vada al di là della contingenza.

Il problema di un movimento pacifista internazionale incisivo e non effimero si pone in tutto il mondo e sarà d’attualità anche quando questa guerra sarà finita. Molti hanno chiesto, spesso un po’ provocatoriamente, prima dello scoppio della guerra, dove fossero i pacifisti. 

Nel 2003 un possente movimento pacifista contro l’intervento Usa in Iraq scosse il mondo, portando in piazza più di cento milioni di persone. Si trattava di un movimento con caratteristiche in parte nuove, senza i paraocchi ideologici del passato che univa persone dei più diversi orientamenti. Il New York Times arrivò a scrivere che quel movimento di opinione rappresentava la nuova superpotenza mondiale in grado di fermare la guerra. Sappiamo che non andò così e si trattava senz’altro di un’esagerazione giornalistica ma resta il fatto che quella vastissima mobilitazione avrebbe potuto rappresentare un fatto davvero rivoluzionario.

Che cosa è successo da allora in Europa e nel mondo?

In primo luogo, è subentrata in molti, anche a causa di quell’esperienza e della disillusione provocata dall’inizio della guerra, la sfiducia di poter incidere sulla realtà.

In secondo luogo, qualsiasi movimento con forti caratteristiche di spontaneità, se non fissa   degli obiettivi precisi attorno a cui organizzarsi, finisce inevitabilmente per rifluire.

Certo, ci saranno dei momenti di mobilitazione più vasta, come quello che stiamo vivendo in questi giorni, in cui anche tante persone che normalmente non partecipano a nessuna iniziativa pubblica, scendono in piazza magari sulla base di una legittima spinta emotiva.  Tutto questo però potrà incidere solo se alla base ci sarà stato un costante lavoro condotto da pazienti costruttori di pace che avranno lavorato anche in periodi di minore mobilitazione.

Costruire la pace significa compiere ogni giorno azioni concrete in questa direzione, come quelle compiute da organizzazioni quali Emergency, Medici senza frontiere e tante altre che ognuno di noi può sostenere nella forma e nella misura che gli sono consentiti.

Inoltre, gli operatori di pace dovranno studiare i problemi, capire e affrontare le ragioni dei conflitti che possono sfociare in guerre; la pace non può essere assenza di guerra o basarsi sulla deterrenza del terrore ma deve essere legata alla giustizia e al riconoscimento dei diritti di tutti.  Questo significa lottare adottando   forme incisive di non violenza in grado anche di far fronte  alle inevitabili  azioni repressive sia interne che esterne al singolo Paese.

Forme efficaci di lotta e di resistenza non violenta, infatti, non corrispondono solo a un criterio etico coerente con gli ideali pacifisti ma risultano più efficaci in un confronto chiaramente asimmetrico in cui contrapporsi in modo violento agli imponenti apparati repressivi di cui gli Stati dispongono risulterebbe comunque rovinosamente perdente. Un valore che i movimenti politici devono considerare fondamentale è quello della loro autonomia politica rispetto alle politiche degli Stati e alle varie ideologie.

In Italia un contributo decisivo a liberare il pacifismo dai condizionamenti ideologici della guerra fredda lo dette Aldo Capitini, il principale ispiratore della marcia della pace Perugia-Assisi che da allora si svolge ogni anno. Naturalmente autonomia e indipendenza non significano apoliticità in quanto un movimento pacifista credibile deve essere sempre in grado di formulare giudizi precisi sulle varie situazioni e mobilitarsi di conseguenza, senza inseguire facili consensi.

È evidente che tutto questo implica anche l’allargamento degli spazi di democrazia per poter anche semplicemente far sentire la propria voce: per fare solo un esempio attuale, basta pensare ai rischi che stanno correndo quei coraggiosi cittadini russi che scendono in piazza per far sapere al mondo che la guerra di Putin non è la loro guerra

La delusione successiva al riflusso del movimento del 2003 fu la conseguenza dell’illusione che un movimento di opinione, per quanto vasto, possa da solo fermare una guerra se dietro di esso non esiste una diffusa cultura di pace.

Chi lavora a costruire la pace deve essere consapevole che si tratta di un lavoro di lungo corso che punta attraverso azioni concrete a gettare semi che daranno frutti a lungo termine

Gino Strada, che di pratiche di pace se ne intendeva, ripeteva spesso che la guerra dovrebbe diventare un tabù, qualcosa di inconcepibile per tutta l’umanità, quindi frutto di un cambiamento di mentalità che richiede tempo e tenacia.

Questo non impedisce di intervenire nelle situazioni contingenti come quella attuale con la credibilità di chi non si limita ogni tanto a rispolverare una bandiera multicolore.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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