I costi nascosti del nostro cibo

Ha fatto scalpore nei giorni scorsi la decisione della catena discount tedesca Penny di mettere in vendita per una settimana nove prodotti al loro prezzo reale.

Tale prezzo tiene conto non solo dei costi di produzione e di distribuzione ma anche di quelli relativi all’impatto ambientale di ciascun prodotto, in termini di consumo di risorse naturali e ai danni alla salute umana che, anche secondo gli esperti che collaborano all’iniziativa, non vengono calcolati nel prezzo di vendita dei prodotti alimentari.

Ne emergono risultati inquietanti con prodotti il cui prezzo reale risulta in tal modo superiore fino al 94% come nel caso di un formaggio olandese a fette scelto per questo esperimento; si tratta di un formaggio fatto con latte vaccino, venduto normalmente in una confezione da 300 grammi a soli € 2,49 il cui prezzo, inclusivo dei costi ambientali, risulta di € 4,84. L’ aggravio di 84 centesimi è dovuto alle emissioni di CO2 e di metano prodotte durante la lavorazione e dannose per l’ambiente, 76 centesimi in più sono invece dovuti all’inquinamento del suolo causato dall’agricoltura intensiva per la produzione del mangime delle mucche. A questi sovrapprezzi vanno aggiunti 63 centesimi per gli effetti dei pesticidi chimici sulla salute dei contadini e 12 per i danni prodotti alla falda acquifera dall’uso di concimi chimici. Per lo stesso motivo una confezione di Würstel, normalmente venduta a € 3,19, viene proposta al prezzo reale di € 6,01 e via rincarando per altri prodotti.

Un dirigente del gruppo di cui il discount fa parte spiega l’esperimento con la necessità di far prendere coscienza ai consumatori dei costi per l’ambiente prodotti dall’intera filiera di produzione del nostro cibo e si può senz’altro convenire, al di là degli aspetti pubblicitari, sulla validità dell’iniziativa.

Esaminando il problema più in generale occorre innanzitutto distinguere le emissioni di CO2 legate alla produzione alimentare e quelle relative alla distanza che un determinato prodotto deve percorrere per giungere sulle nostre tavole per cui, da questo punto di vista, il consumo di prodotti locali sarebbe, nei limiti del possibile, auspicabile.

Per quanto riguarda le emissioni di CO2 connesse con la produzione, l’impatto maggiore deriva dalla produzione di carne di manzo su cui incidono soprattutto i sistemi di allevamento prevalentemente intensivo; l’allevamento dei bovini comporta anche significative emissioni di gas climalteranti quali il metano, e l’ossido di carbonio legate alla digestione degli animali, che riguardano, sia pure in misura minore, anche altri prodotti alimentari. La produzione di questo tipo di carne provoca complessivamente il maggior impatto ambientale.

Segue, nella poco lusinghiera classifica delle maggiori emissioni di anidride carbonica, la produzione di carne di agnello e di montone, quella del formaggio e dei latticini in genere, la produzione di cioccolato fondente, di caffè, di carne di maiale, di pollame, di pesce di allevamento e di uova.

Per quanto riguarda il consumo di acqua, il primato spetta alla produzione di cioccolato, seguito da quella del caffè e dalla produzione di carne di manzo.

Tenendo conto di tutti i fattori di produzioni una tavoletta di cioccolato richiede circa 1.700 litri d’acqua, impiegati per la coltivazione dei semi di cacao.

Il consumo del suolo va analizzato tenendo conto dei metodi di produzione che sono naturalmente molto più impattanti nei sistemi di produzione industriale del cibo.

Gli allevamenti intensivi richiedono ampi spazi soprattutto per la produzione di cibo per gli animali.

La produzione di cibo biologico ha naturalmente un impatto molto minore sull’ambiente in quanto implica l’esclusione del ricorso a concimi chimici, diserbanti, anticrittogamici e insetticidi. L’allevamento svolto con criteri biologici esclude invece l’uso di antibiotici e di ormoni e garantisce un migliore benessere degli animali e una loro migliore alimentazione, con evidenti ricadute positive anche sulla salute dei consumatori.

Il ricorso a prodotti biologici risulta dunque positivo anche se implica necessariamente maggiori costi non accessibili a tutti i consumatori. Sui prezzi dei prodotti biologici pesano spesso anche aspetti speculativi che andrebbero adeguatamente contrastati. Sarebbe ovviamente auspicabile che le sovvenzioni dei singoli Stati e dell’Ue si indirizzassero maggiormente verso la produzione biologica e verso nuove forme ecocompatibili di produzione alimentare, evitando, come purtroppo avviene attualmente, di sovvenzionare generosamente produzioni dannose per l’ambiente e per la salute di produttori e consumatori.

La produzione e il consumo di prodotti biologici resterà comunque riservato a una fascia ristretta di popolazione e non appare in grado, in prospettiva, anche per gli spazi agricoli di cui necessita, di far fronte alla crescita della popolazione mondiale e al diritto di ogni essere umano a essere alimentato in modo adeguato. La scommessa del futuro riporta sempre alla difficile necessità di produrre cibo a sufficienza per una quantità crescente di esseri umani, senza erodere ulteriormente le risorse naturali di cui disponiamo nell’unico pianeta a nostra disposizione.

 

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