Bianco è il colore del danno

Svegliarsi una mattina e accorgersi che una parte del proprio corpo non risponde più agli impulsi del cervello.

Questa è una delle forme in cui si presenta la sclerosi multipla o, per dirlo con la fredda precisione della scienza, della SM recidivante e remittente, e questa è l’esperienza  vissuta da  Francesca al risveglio mattutino  in un albergo di Palermo. Così Francesca Mannocchi, nota corrispondente freelance, autrice di coraggiosi servizi spesso da zone di guerra, si trova a ingaggiare una guerra   senza quartiere contro un male incurabile; una lotta probabilmente inutile nel lungo periodo ma necessaria per rimanere fino all’ultimo attaccata con dignità alla vita, che Francesca ha sentito il bisogno di raccontare in questa sorta di diario pubblico.

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La sclerosi multipla è una malattia autoimmune cronico-degenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale; in alcuni periodi la sua progressione può arrestarsi mentre in altri procede più o meno rapidamente mentre i casi in cui scompare dopo la prima manifestazione sono statisticamente pochi. Le cause della malattia sono ignote e non è chiaro nemmeno perché colpisca prevalentemente le donne. Si ipotizzano cause genetiche o infettive senza escludere il concorso di fattori ambientali. Il titolo del libro è un riferimento alle macchie bianche che intaccano il grigio della massa cerebrale nelle sequenze delle risonanze e che indicano il progredire del morbo.

Attraverso la malattia Francesca rielabora in modo nuovo le sue relazioni con gli altri, rivede i rapporti con il padre che su di lei ha scaricato le proprie frustrazioni e approfondisce i rapporti con la madre, che anzi si definiscono nitidamente proprio all’interno di questa dolorosa esperienza. La riflessione esistenziale implica anche una rivisitazione profonda dell’intenso rapporto con la nonna materna che ha segnato profondamente la vita e la formazione umana di Francesca.

Anche in rapporto con il proprio corpo subisce profonde trasformazioni, prima di tutto per l’attenzione nuova che il “danneggiato” è costretto ad avere nei suoi confronti; in una malattia autoimmune poi il sistema immunitario attacca delle cellule sane, danneggiando profondamente tessuti organici di vari organi e questo induce Francesca a immaginare una sorta di lotta suicida del proprio corpo con se stesso. Del resto nel testo ricorrono frequentemente   le immagini che Francesca evoca, quasi per voler rappresentare concretamente i vari aspetti che la malattia assume in modo da riuscire farvi fronte più efficacemente.

L’aspetto più angoscioso che attraversa tutto il racconto è la possibile relazione fra lo scatenarsi della malattia  e la nascita del piccolo Pietro, avvenuta l’anno prima della diagnosi del morbo; i medici ipotizzano infatti che la malattia sia rimasta latente nel corpo di Francesca e che possa essersi manifestata a causa della tempesta ormonale coincidente con la gravidanza e con il parto. Francesca parla di questo con misurato pudore che però non sempre riesce a nascondere la dolorosa tensione, anche inconscia, che questa scoperta implica. Francesca immagina una sorta di convivenza fra la nuova vita che stava nascendo e la malattia chiedendosi se sia stata pacifica o conflittuale.

Ancor prima dell’insorgere della malattia la sua visione della maternità era del resto   disincantata, fatto questo che rende il suo rapporto con Pietro intenso e sincero; Francesca non rinuncia mai al suo lavoro e questo le impone, fin dai primi mesi di vita del bambino, periodi di lontananza per cui non prova quei rimorsi che il conformismo sociale imporrebbe al presunto venir meno dei suoi doveri di buona madre

La malattia impone anche di rivedere il proprio rapporto con la lingua e con le parole.

“La lingua della medicina non coincide col male che prova a descrivere” osserva Francesca, non dà conto della realtà umana del paziente e delle sue aspettative.

Si manifesta infatti uno scarto fra le aspettative del malato che cerca nella cura una speranza e una via d’uscita e la constatazione che la scienza medica può trasmettere solo incertezza e insicurezza. Solo il Dottore, un vecchio amico di famiglia, è in grado di creare un ponte fra i due mondi, di dare un senso umano e concreto alle astratte   e fredde parole della scienza

Ma le parole sono anche lo strumento che dà ordine e sostanza alla memoria, senza la quale ognuno di noi perde la sua umanità e per questo Francesca combatte per conservarle il più possibile nella loro capacità di rappresentare con precisione la realtà.

La malattia è anche un doloroso viaggio nelle crescenti carenze del sistema sanitario italiano, sempre più lontano dalle esigenze umane di chi soffre, specie se non ha i mezzi economici per accedere ai servizi migliori e più rapidi.

Francesca si pone ad osservare il mondo con un occhio asciutto e scevro da ogni retorica e da questo punto divista può rilevare come i sani esprimano la loro soddisfazione di esserlo mente i “danneggiati” non nascondono la rabbia e il senso d’ingiustizia che il male sia capitato proprio a loro; laicamente Francesca ci comunica insomma che la malattia non rende necessariamente più buoni.

Un libro denso e importante per tutti, uno sguardo coraggioso e asciutto sulla fragilità dell’esistenza e sulla sottile linea divisoria fra i sani e i malati.

Un testo che pone domande dolorose senza fornire risposte rassicuranti ma che ci chiede di guardare in faccia la nostra fragilità di esseri umani.

 

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