Marco Magini è nato ad Arezzo e vive a Londra; è laureato in Politica economica internazionale e si occupa di economia ambientale presso la South Pole, un’agenzia internazionale di consulenza ambientale in campo economico. Nel 2014 ha pubblicato presso l’editore Giunti Come fossi solo, sul genocidio di Srebenica del 1995. Il romanzo è stato tradotto in varie lingue e ha ottenuto, oltre a numerosi riconoscimenti internazionali, la menzione d’onore del Premio Calvino nel 2013, nonché la candidatura al Premio Strega del 2014.

Marco Magini è anche attivo nel campo della promozione della cultura italiana a Londra. È uno degli autori di The Fifth Siren, un podcast in lingua inglese su Venezia. Da pochi giorni l’editore Solferino ha pubblicato Gli ospiti, il suo nuovo romanzo di cui ha accettato di parlare con Sconfinamenti.
Il tuo romanzo offre uno spaccato drammaticamente realistico della realtà turca nella fase storica del definitivo consolidamento del potere dispotico di Erdogan. La tua efficace raffigurazione della società turca nei suoi vari aspetti e nelle sue contraddizioni non pregiudica minimamente lo sviluppo di una trama narrativa convincente e appassionante, con personaggi ben delineati e credibilmente inseriti nel contesto storico e sociale. Parlaci un po’ degli ospiti che caratterizzano il romanzo fin dal titolo.
Il pericolo di scrivere un romanzo a tesi mi è stato ben presente e ho tentato in effetti di evitarlo. Il titolo esprime lo stato d’animo dei due protagonisti che si sentono ospiti in un determinato luogo e in determinato momento storico. L’io narrante è un italiano che ha vissuto a Londra, proiettato nella realtà di Istanbul da straniero e che, nonostante i suoi sforzi, rimane sempre esterno a essa. Anche la protagonista, pur essendo turca, si sente ospite perché si trova a confronto con una realtà in cui fa fatica a riconoscersi e da cui si sente in parte respinta.
Quindi il titolo non si riferisce solo agli expat, di cui pure l’io narrante dà un giudizio piuttosto sprezzante.
Io stesso prima di venire a Zurigo ho vissuto a Istanbul e, pur trovandomi in condizioni economiche non agiate, per il solo fatto di essere europeo venivo etichettato e trattato come un expat, anche se vivevo con una ragazza turca che poi è diventata mia moglie. Quanto a molti expat ben remunerati che vivono in Paesi in via di sviluppo, magari alle dipendenze di organizzazioni internazionali, in effetti spesso assumono atteggiamenti arroganti difficilmente accettabili.
“Alla nuova Turchia non interessa né il nostro passato né il nostro futuro” dice Ceren, la zia della protagonista, un’avvocata impegnata politicamente. Il riferimento è all’industrializzazione selvaggia della Turchia, con tutte le conseguenze sociali e culturali che questo ha comportato.
Sì, la Turchia è interessante perché, come ha scritto anche Ece Temelkuran, incarna dinamiche che vanno al di là della sua realtà specifica. Il Paese ha in effetti conosciuto negli ultimi anni una crescita economica impetuosa ma al tempo stesso selvaggia, basata sul cemento e sui consumi che ha snaturato profondamente le caratteristiche della propria storia e delle proprie tradizioni.
Qualcosa di simile a quello che è avvenuto in certe zone dell’Italia
SÌ, e qualcosa di simile a quello che sta avvenendo in India, in Cina, in Vietnam. Questo tipo di sviluppo porta con sé una serie di contraddizioni di cui molte persone, a un certo punto, prendono coscienza e che le inducono a forme diverse di politicizzazione.
Il sociologo tedesco Gerhard Schweizer sostiene che in Turchia non esiste un vero islamismo paragonabile a quello di alcuni Paesi arabi ma che l’ondata tradizionalista che ha portato al potere Erdogan e la sua cricca abbia una caratteristica più politica che religiosa.
Erdogan personalmente è soprattutto un opportunista. Il Financial Times prevedeva recentemente che l’autocrate turco, in difficoltà nei sondaggi, abbia intenzione, in vista delle prossime elezioni, di dichiarare la Turchia repubblica islamica, annullando dunque il carattere laico fissato dalla Costituzione repubblicana; questo avverrebbe non per un’intima convinzione religiosa dello stesso Erdogan ma per l’opportunità politica di dividere le opposizioni. Resta il fatto che Edogan ha strumentalizzato determinate forze difficili da controllare; è un po’quello che è successo nei Balcani di cui mi sono occupato nel mio primo romanzo. Milosevic era un socialista che ha utilizzato il nazionalismo ma a furia di evocarlo il genio è uscito dalla lampada e non è facile farcelo rientrare. Al di là delle intenzioni strumentali, bisogna poi vedere il tipo di resistenze che Erdogan può ancora incontrare, ad esempio, riguardo alla mortificazione del ruolo della donna nella società turca.
Nel tuo romanzo e anche nel bellissimo saggio di Ece Temelkuran sembrerebbe che né i repubblicani kemalisti, né la sinistra si siano accorti in tempo dell’ondata reazionaria che ha portato al potere Erdogan.
Per quanto riguarda la sinistra sarei meno critico. Fra il 1960 e il 1980 in Turchia ci sono stati ben tre colpi di stato militari, due dei quali particolarmente sanguinosi, con lo scopo principale di mantenere la Turchia all’interno della Nato e che hanno distrutto ogni forma organizzativa della sinistra. Questo ha lasciato spazio alla nascita di movimenti di estrema destra e islamisti, che hanno favorito l’ascesa di Erdogan. I repubblicani hanno invece mostrato verso i movimenti popolari di ispirazione islamista un rifiuto e un’incomprensione di tipo classista.
Nel 2013 le proteste di Gezi Park a Istanbul, iniziate per opporsi alla distruzione di un piccolo parco per far posto a un centro commerciale, furono la scintilla che fece esplodere un vasto movimento spontaneo di opposizione a Erdogan. Questa vicenda storica ha un ruolo importante anche nel tuo romanzo.
Sì, molti hanno creduto che in quel momento esistessero le condizioni per creare un vasto e duraturo movimento di opposizione ma la mancanza di strutture organizzative adeguate, dovuta appunto anche alla feroce repressione subita in passato dalla sinistra, ha fatto rifluire la protesta. Il governo turco, inizialmente disposto a fare delle concessioni, quando ha compreso l’inconsistenza organizzativa dell’opposizione, ha accelerato la sua svolta autoritaria. Poi c’è un sistema elettorale con lo sbarramento al 10% che rende difficile la rappresentanza politica dell’opposizione
Uno sbarramento concepito soprattutto contro la minoranza curda, a cui viene perfino impedito di usare la propria lingua. C’è un rapporto fra i curdi e la sinistra?
Il leader curdo Demirtas, attualmente in carcere, è un raffinato intellettuale ma anche un politico molto capace e lungimirante e col suo partito, Hdp, era riuscito a superare lo sbarramento, ottenendo non solo il voto dei curdi ma anche di parte della sinistra, soprattutto dei giovani. Le generazioni più anziane fanno fatica a votare un partito di ispirazione curda in quanto più legate al nazionalismo repubblicano molto ostile verso le minoranze.
Le due Turchie che non comunicano sono quindi soprattutto quella legata alla tradizione repubblicana kemalista e quella che si riconosce invece nell’islamismo strumentalizzato da Erdogan.
Nel mio romanzo ho cercato di mostrare quanto queste due Turchie abbiano in realtà molto in comune, se si pensa alle caratteristiche di sostanziale tolleranza dell’Impero turco, che ha permesso per secoli la convivenza fra etnie, culture, lingue e religioni diverse. Nonostante tutti i tentativi di repressione questa molteplicità rimane viva e non può essere soppressa. Il tentativo nazionalista di creare un’identità turca omogenea è una costruzione artificiale che non potrà mai realizzarsi completamente.
La protagonista, originariamente legata a idee della tradizione repubblicana, compie un percorso personale di evoluzione democratica.
Ho “rubato” il nome di questo personaggio al romanzo Neve di Orhan Pamuk, che ho amato molto. Sì, in effetti le idee di Ipek evolvono nel rapporto con il suo compagno e con gli eventi che la coinvolgono, soprattutto la rivolta di Gezi Park.
Pensi che i processi di sostanziale distruzione della democrazia avvenuti in Turchia possano riguardare altri Paesi, con democrazie ritenute mature?
Temo di sì, e anzi in molti Paesi occidentali questo sta avvenendo in modo molto rapido, se solo penso alla realtà degli Usa e alla ricca pubblicistica che segnala la gravissima crisi di quella democrazia; anche in Gran Bretagna, Paese in cui vivo, ci sono evidenti segnali di involuzione antidemocratica. Basti pensare alla recente proposta di legge del governo mirata a limitare il diritto di protesta.
C’è speranza per la Turchia e non solo?
Ci deve essere per forza. Io, che mi occupo professionalmente di tematiche legate al cambiamento climatico, oscillo continuamente fra la speranza per certe tendenze positive di fondo che emergono nell’affrontare questa problematica e lo sconforto di certe realtà legate alla cronaca quotidiana.