Stanno smontando il mare: colloquio con Piergiorgio Paterlini

Piergiorgio Paterlini è, da tanti anni, una presenza costante della mia vita, anche se lui non lo sa. Autore di una ventina di libri, diversi dei quali ho letto, tra i fondatori, nel 1989, del settimanale di resistenza umana “Cuore”, che da ragazzo mi faceva fiondare in edicola con puntualità svizzera (per me indimenticabili le rubriche “Hanno la faccia come il culo” e “Le 5 cose per cui vale la pena vivere”), autore di un film nel 2010, “Niente paura”, che mi fece correre al Riff Raff di lunedì sera (credo sia stata l’unica volta della mia vita), unico cinema a Zurigo che proiettava il film, autore del blog “Le nuvole” su L’Espresso, oltre a scrivere, da tanti anni, per Repubblica. Da diverso tempo tiene su Robinson, il settimanale culturale di Repubblica, la rubrica “testo a fronte”, in cui riscrive i risvolti di copertina dei libri, per esplicitare al lettore cosa troverà se leggerà il libro proposto. E’ il primo articolo che io leggo ogni sabato mattina ed è diventata ormai tradizione scrivergli un messaggio per commentare il libro proposto.

Lo scorso 14 gennaio è uscito il suo ultimo libro, pubblicato da Voland, “Stanno smontando il mare”, una raccolta di 22 racconti, molti già pubblicati nel corso degli ultimi trent’anni, altri inediti, tutti diversi fra loro eppure tutti estremamente interessanti. Proprio in occasione dell’uscita del libro ho proposto a Paterlini un’intervista a distanza che, con la gentilezza che lo contraddistingue da sempre, ha accetto volentieri. Eccovi una sintesi della nostra chiacchierata.

Ventidue racconti, cinque dei quali inediti. Un bel regalo per i tuoi fedeli lettori, e un bel modo per i lettori nuovi di scoprirti? Come è nata questa idea?

Ho la rara fortuna non solo di non avere i cassetti pieni di inediti perché tutto quello che ho scritto è sempre stato subito preso dai miei editori, ma addirittura di essere in ritardo (questa non è una fortuna) rispetto a libri già concordati e contrattualizzati da consegnare. Però, nel corso degli anni, è capitato di dire sì alle persone più disparate che mi chiedevano un racconto: un catalogo per una mostra fotografica, una rivistina di quartiere, una plaquette. Spero di essere creduto: scrivere per la rivistina di una associazione sconosciuta o scrivere per Einaudi per me è la stessa identica cosa, stesso impegno, stessa adrenalina, stessa concentrazione, stesso tutto. Solo che quel materiale era già in partenza destinato a pochi, quando non pochissimi, e a durare poco nel tempo, quando i miei libri hanno la fortuna di essere molto longevi. Mi è sembrato bello, in certo modo necessario, doveroso pubblicare i testi migliori di quella galassia dispersa e introvabile e farli arrivare potenzialmente a tutti i miei lettori di oggi.

I racconti sono suddivisi in quattro gruppi: “Luce piena”, “Mezza luce”, “Buio” e “Oltre il buio”. Puoi spiegarci il perché di questa scelta?

Non si tratta di didascalie, naturalmente, ma di una scelta poetica, diciamo così, suggestioni. Per questo non vorrei banalizzarla, spiegandola. E’ un percorso per il lettore e che ogni lettore farà suo e a modo suo. Nella varietà dei temi, questi racconti si possono anche leggere come illuminati, a gruppi, da una diversa luce, o da un rapporto diverso con luce e buio (un tema anche simbolico a me molto caro, basta leggere Bambinate), o come irradianti – quindi il percorso inverso- diversi tipi di luce e buio. Voglio dire, puoi essere su un palcoscenico ed essere illuminato in un certo modo, oppure tu puoi irradiare luce o buio. Diversi tipi di luce e buio possono venirti incontro (da fuori a te) o venire da dentro di te verso l’esterno. Le due direzioni possono convivere. Se il lettore vuole, può leggere questi racconti in questa chiave.

Leggendo, o meglio divorando, i tuoi racconti, mi è venuto in mente un parallelo con la musica, o meglio con un disco che la cantante Mia Martini incise all’inizio degli anni ’90, “La musica che mi gira intorno”. In quel disco reinterpretò le canzoni di grandi cantautori quali De André, Bennato, Fossati, De Gregori, Rossi ma non scelse le canzoni più famose, e forse nemmeno le più belle; scelse quelle scritte in un momento di particolare fragilità o dolore da parte dell’autore. I tuoi racconti fotografano i protagonisti in un momento, se non di fragilità, di vulnerabilità: può essere questo uno dei fili conduttori del tuo libro?

Mi sembra di aver raccontato sempre, in modi e gradazioni diverse, la vulnerabilità. Di un personaggio, di un gruppo… In questo libro compio un vero e proprio salto mortale che non avevo mai azzardato. Racconto la vulnerabilità della Terra, della vita sulla Terra, la sua infinita e misteriosa “piccolezza” e se vogliamo marginalità, perifericità rispetto all’universo. Devo dire – ma è ancora presto, il libro è appena uscito – che nessuno ha colto ancora la parte inusualmente dura, “arrabbiata” di alcuni racconti, in cui l’estinzione viene addirittura indicata…

Nel racconto “Le ciliegie fanno molto male”, che è stato per me un piacere rileggere, racconti dei primi dolori dell’infanzia. Com’è stata la tua infanzia?

Sono cresciuto in una famiglia matriarcale ottocentesca. Oggi mi sento come avessi attraversato tre secoli ed è bellissimo. Questa famiglia, che a un certo punto è andata in frantumi, era governata da una nonna da me molto amata ma di cui vedevo la ferocia e l’ingiustizia perpetrata sui miei genitori, con esibizioni di cattiveria difficili da credere. Credo di dovere a lei, suo malgrado, la mia totale insofferenza, inaccettabilità, ribellione verso per ogni ingiustizia, per ogni sofferenza provocata da un essere umano su un altro essere umano.

Poi ho visto la rabbia – moltiplicata dalla totale impotenza, di mio padre. Un uomo rabbioso e debolissimo. E il dolore anch’esso impotente e sterile di mia madre, abbinato alla sua, anzi loro, paura assoluta della vita. Ero, sono il primogenito di quattro figli. A cinque anni i miei genitori chiedevano a me di fare loro da padre e madre, e di rassicurare sulla vita, proteggerli dal loro costante terrore per tutto. Loro avrebbero dovuto rassicurarmi, darmi sicurezza, no? Ancora oggi mi chiedo come ho fatto a diventare adulto. Ho pagato, certo, ho sofferto ad esempio di forme acute di attacchi di panico nella prima giovinezza, cose non piccole, ma tutte superate. Credo di essere diventato un adulto in qualche modo equilibrato, sereno, coraggioso. Non mi sono sottratto allora a quel compito assurdo, non mi sono mai più sottratto, credo. E – dentro, ma anche concretamente nella mia vita – sono (rimasto) un papà. Se dovessi definirmi in una sola parola (cosa assurda, è tutto molto più complesso) direi: sono un papà.

In uno dei miei racconti preferiti, “La borraccia”, un uomo oramai anziano, ricordando la sua passione per il ciclismo, ripercorre la sua adolescenza. Come è stata la tua adolescenza e cosa ti sentiresti di dire agli adolescenti di oggi, che vivono un periodo così straordinario in un momento della vita notoriamente non facile?

La mia adolescenza è più difficile da riassumere. Direi – con una parola – fortunata. Molto fortunata. Ricchissima. Di esperienze, incontri, energia, scoperte (ovvio). La mia adolescenza è stata la scoperta consapevole della voglia di vivere, dell’assurda, infinita bellezza della vita. Ero completamente ignorante sull’amore e sul sesso. Quella scoperta è stata il motore di tutto, ricordo che proprio mi ero detto, a tredici anni: questo è il paradiso, chi l’avrebbe mai sospettata una cosa tanto grande e meravigliosa? Ero sconvolto che esistesse qualcosa di così immensamente bello. Con tutto che lavoravo solo di fantasia, ho saputo subito di essere gay e pensavo non solo non avrei mai sperimentato né amore né sesso ma che non l’avrei mai detto a nessuno. Ma la bellezza in sé di questo pezzo della nostra umanità mi aveva fatto impazzire di felicità. Mi sembrava impossibile la vita potesse riservare, contenere una cosa così incredibile. Innamorarsi. Perdere la testa per qualcuno. Per questo non ho avuto un solo minuto di difficoltà, confusione, dubbi, rifiuto sulla mia omosessualità e sull’omosessualità in genere. Era semplicemente bellissimo, fantastico, quello che provavo. Provavo appunto solo infinita gratitudine. Ma se questo è stato il motore, la cosa più da fuochi d’artificio, poi – non troppo al di sotto nella scala di valori e nell’entusiasmo e nello stupore – gli amici (quelli “totali”, un’altra scoperta pazzesca), i libri, leggere, la scrittura, la politica. Universi di meraviglia. Detto solo così sembro un deficiente, c’è stato anche dolore, delusione, vuoto, mancanza, interrogativi, angoscia, l’abbandono del cattolicesimo e di ogni fede religiosa. Ma non voglio – non sarei onesto – sminuire di un millimetro quanto detto prima. Agli adolescenti di oggi non ho niente da dire, nel senso di niente che abbia un vettore solo, da me a loro. Ho molto da chiedere e da imparare – lo dico senza retorica – agli adolescenti nulla,con gli adolescenti tutto, in uno scambio che pratico in modo vorrei dire totale e ininterrotto (amicizie personali, scuole, social…). Dialogo, alla pari, cioè senza differenza di potere, ma nel riconoscimento delle diversità (anche l’età) e senza la minima condiscendenza. Una cosa però la dico sempre, in realtà, e anche qui puzzerà di retorica ma non so cosa farci. La dico raccontando di me, non con uno slogan (se non alla fine). Sono nato praticamente nell’Ottocento, in mezzo ai campi, in una casa dove non c’era un libro neanche dipinto, né la tv (nata il mio stesso anno, 1954), dove nessuno aveva studiato, eccetera. A cinque anni, prima di andare a scuola, volevo solo leggere e non sapevo leggere e non avevo niente da leggere. Tormentavo giorno e notte mia nonna che facesse qualcosa, che trovasse qualcosa da leggermi. A sei anni volevo fare lo scrittore. Che uno come me, in quella famiglia, in quella situazione (ripeto in aperta campagna lontano perfino dal paesino lontano da tutto che era il mio Comune) potesse diventare uno scrittore aveva la stessa probabilità che io domattina vada su Marte a piedi. Non c’è bisogno che predichi ai ragazzi di credere ai propri sogni. La mia vita – stracolma anche di dolore sia chiaro – è un sogno impossibile realizzato. Un miracolo (non ho un altro termine, anche se lo dico non in senso religioso). Se io oggi sono lo scrittore che sono, qualunque sedicenne può diventare qualunque cosa. Meglio che chiarisca un ultimo punto: ho avuto gioia oltre l’immaginabile, ho sperimentato e sperimento anche oggi dolore oltre l’immaginabile. E io non sono uno che fa la media fra le due cose.

Un altro filo conduttore del libro è l’amore, nelle sue diverse forme: genitori-figli, amore per lo sport, amore per la conoscenza, amore passionale. In alcuni casi si tratta di un amore omosessuale, ma questo non è che un particolare. Tu hai scritto, a inizio anni ’90, un libro che ha fatto epoca, “Ragazzi che amano ragazzi”. Io purtroppo lo persi allora, e l’ho letto soltanto diversi anni dopo, ma so che questo libro è un’utile guida: ai ragazzi per accettarsi, agli adulti per accettare. Nel 2011, hai proposto un’edizione aggiornata di “Ragazzi che amano ragazzi”: com’è cambiata la vita dei giovani LGBT nei vent’anni 1991-2011? Ci sono stati ulteriori cambiamenti in questi ultimi dieci anni?

Riesco a rispondere meglio dicendo cosa secondo me non è cambiato, e non sono cose da poco.

Non è cambiato il tabù. E non era possibile cambiasse così in fretta. Pensateci. Un tabù millenario, che ha a che fare con due grumi fra i più duri e complessi della storia umana, la sessualità e la religione, be’, impensabile che due decenni di gay pride potessero scalzarlo. Non credo ne siamo abbastanza consapevoli, anzi. Non stiamo affrontando questa questione, e molte delle difficoltà apparentemente inspiegabili oggi ad autoaccettarsi come gay vanno cercate più lì che nella società e nelle chiese, che pure continuano ad avere le loro belle gravi responsabilità.

Non è cambiata l’ignoranza e la confusione sull’omosessualità. Continuiamo a fare confusione tra orientamento sessuale e identità, fra omosessualità ed effeminatezza o femminilità o il femminile mescolato al maschile nelle persone. Il casino che abbiamo in testa – gay e etero – è per me inaccettabile, incomprensibile, imperdonabile oggi, e fonte di infinita sofferenza. Faccio solo un esempio che per me è paradossale ma so scandalizzerà e indignerà (contro di me) ancora una volta gli attivisti “LGBTUVZ”. Se una persona nata con gli organi genitali maschili si sente una donna, quindi è una donna, e fa giustamente di tutto per adeguare (oggi per fortuna si dice così non “cambiare sesso”) il proprio corpo alla propria vera identità (uso termini imprecisi qui per essere comprensibile), quindi è una donna che si innamora degli uomini sarà una persona eterosessuale no? Il massimo dell’eterosessualità se per essere se stessa arriva a modificare i tratti somatici e l’apparato sessuale. E allora cosa diavolo c’entra con il movimento gay? Che senso ha quell’assurda sigla lgbt che mette assieme persone diversissime se non opposte? O facciamo il movimento degli sfigati, degli oppressi, ma allora ci mettiamo anche i senzatetto, gli immigrati ecc ma se il punto è l’affettività e la sessualità, una trans non ha nulla ma proprio nulla a che fare con gli omosessuali. Non è una questione di lana caprina. Non lo è in sé, ma pensate alla confusione che si ingenera nella gente, che scambia ancora i gay per maschi effeminati, per donne mancate, e pensa che omosessualità e analità “passiva” siano la stessa cosa (come se poi non fosse pieno di etero che fanno l’amore analmente con le donne). Ecco quello che non è cambiato. L’incredibile insopportabile dannosissima ignoranza in cui siamo immersi.

Un altro dei tuoi libri che ho tanto apprezzato è stato “I brutti anatroccoli”, in cui tu hai intervistato persone brutte. Come è nata questa idea? Come hai fatto ad approcciare queste persone? Quanto è importante la bellezza? E quanto penalizzante la bruttezza?

Per rispondere a questa domanda non mi è bastato nemmeno l’intero libro. Mi arrendo. Leggetelo, se siete interessati. Posso solo dire che ho accostato queste persone con la massima attenzione umana, come del resto avevo fatto per “Ragazzi”, che vuol dire solo una cosa: mi sono fatto cercare, più che cercarle (anche se le ho cercate ovviamente). Cioè ho fatto sapere al mondo che volevo scrivere questi libri. Chi era disponibile poteva trovarmi, in modo che loro conoscessero me – all’inizio- ma non io loro, e la loro libertà e privacy fossero garantite al massimo grado e così la discrezione, la delicatezza, la loro libertà di dire sì o no. Poi che penso che la bruttezza fisica esista e – nonostante la grande complessità del tema, di cui sono consapevole- abbia un alto tasso di oggettività (che viviamo concretamente poi neghiamo nei discorsi per uno “spiritualismo” falso, stupido, semplificatorio: “conta solo l’anima”, sì certo, è di quella che ci innamoriamo a prima vista no?). E penso che sia una tragedia – la bruttezza, trovarsi, essere un corpo brutto – e forse il più grande mistero della vita umana. Non scindo corpo e anima (non so come chiamarla, mente, spirito, personalità…) ma proprio per questo non posso non chiedermi – ne dico solo una se no viene notte ma credo possa rendere l’idea – come è possibile che una persona bella sia costretta a vivere in un corpo brutto? Direi un’ultima cosa: leggete I brutti anatroccoli, se vi va, ma ci sono molti libri e film che mi piacerebbe leggeste e vedeste. Uno su tutti: Fosca, di Tarchetti, un cosiddetto minore del nostro Ottocento. Poi ne riparliamo.

In un tuo romanzo, “Bambinate”, racconti la crudeltà dei bambini. Leggendolo, in alcuni punti il romanzo mi ha ricordato “Il signore delle mosche”. Come ci si può difendere da tanta crudeltà infantile?

Il signore delle mosche, certo, ma anche Musil e tanto altro. Ho inzuppato il romanzo di citazioni fino all’inverosimile, da Sant’Agostino a Mark Twain a Pasolini per dire quanto fossi scandalizzato che ancora non avessimo capito, che possiamo ancora pensare che i bambini sono angioletti. Cosa si può fare? Una sola cosa, decisiva. Capire una volta per tutte che pari età – nell’infanzia e nell’adolescenza – non significhi parità di potere. Al contrario, non c’è maggior disparità di potere di quella che si verifica nel “gruppo dei pari”. Non dire/pensare mai più che anche una violenza, una discriminazione, un’esclusione seppur apparentemente minima sia solo una “bambinata”. Capire che non c’è dolore più grande in tutta la vita, più difficile da superare di quello che un ragazzino può infliggere a un altro ragazzino e quindi non dire ai nostri figli “ma cosa vuoi che sia” (impedendo loro di confidarsi, facendoli sentire vili e fifoni, umiliandoli ulteriormente e rendendoli ancora più soli e indifesi), no, dire loro: conosco il tuo dolore, è giusto, è grandissimo. Valorizzare il dolore subito dai nostri bambini e ragazzi, questo si può e si deve fare. E – credo – basterebbe

.Ho letto diversi tuoi libri, ma tanti ancora me ne mancano. Quale dovrei leggere assolutamente?

Il prossimo, ovviamente.

Abbiamo ripercorso la produzione del Paterlini scrittore, ma siamo curiosi di conoscere il Paterlini lettore: cosa legge Piergiorgio Paterlini?

Cambierei questa risposta ogni ora. Leggo cose molto diverse, questo posso dire. Sembra la domanda più facile, per me è la più difficile. La prossima volta stilo una bibliografia, ok?

Questo blog intende rivolgersi non solo agli Italiani, ma agli Italofoni in generale: quali romanzi dell’ultimo ventennio, e quali autori contemporanei, consiglieresti di leggere?

Purtroppo idem come sopra. Mi dispiace. E’ una mia grande inadeguatezza. Non so rispondere. Nel senso che servirebbe una risposta di 30 pagine. Nel senso che mi pentirei della mia risposta dopo 5 minuti dall’averla inviata. Mi accorgerei di aver sopravvalutato uno, dimenticato quell’altro indispensabile. Davvero, mi scuso, è troppo difficile per me.

In Svizzera ci sono tanti Italiani nati e cresciuti qui, che hanno frequentato le scuole locali e non la scuola italiana, quindi non conoscono necessariamente gli autori italiani del ‘900 come noi che li abbiamo studiati a scuola: quali romanzi italiani del ‘900, e quali autori, consideri imperdibili?

Nella mia formazione, decisivo, imperdibile è stato Ignazio Silone, lo sanno anche i sassi. L’avrei detto comunque, ma parlando di Svizzera mi piace ancora di più. Silone è in Svizzera che ha debuttato con il suo primo romanzo (non il migliore, checché se ne pensi, pur se bellissimo e fondamentale) Fontamara. La Svizzera – è storia – è stato il Paese fondamentale del Silone trentenne, antifascista, altissimo dirigente politico, esule, scrittore, malato scampato alla morte a Davos. Lui ha sempre detto che, dopo l’uscita – fra i primi – dal partito comunista, contro lo stalinismo e il fallimento del regime sovietico, dopo essere diventato un “ex”, un “traditore” infamato tutta la vita dagli ex compagni e non solo, dopo tutto questo scrivere ha rappresentato il proseguimento della medesima lotta. Soggettivamente, e all’inizio, è stato sicuramente vero, ma il paradosso è che Silone è un vero narratore, un maestro di scrittura, uno che in realtà non ha mai creduto alla letteratura cosiddetta “impegnata”, almeno all’obbligo di essere uno scrittore “impegnato” (se non impegnato a scrivere e riscrivere i propri capolavori), e questo nonostante la sua potesse (ma ho qualche dubbio) essere ascritta proprio a questa “categoria”. Sicuramente lui ha segnato la mia scrittura, ed è stato un Maestro di vita e di impegno etico e politico per me.

Si sarà capito quanto mi piacciono i paradossi.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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