Adottando comportamenti virtuosi verso l’ambiente, crediamo che il nostro contributo, unito a quello degli altri, sia fondamentale contro il riscaldamento climatico.
Questo vale anche per quanto riguarda le nostre scelte riguardo al cibo in quanto i sistemi alimentari a livello globale sono in effetti responsabili del 30% delle emissioni di CO2 nell’atmosfera e quindi hanno un ruolo determinante per il riscaldamento. globale. Questo convince molti di noi, non senza conflitti e contraddizioni, a ridurre il consumo di carne, a scegliere prodotti biologici o addirittura ad adottare diete vegetariane o vegane.
Fabio Ciconte in un agile e brillante saggio si ripropone di mostrare come l’impegno individuale, se non è inserito in un contesto di profonde trasformazioni economiche e sociali, rischi di risultare velleitario.
https://www.associazioneterra.it/cosa-facciamo/cambiamenti-climatici/il-cibo-e-politica
L’autore ripercorre a questo proposito anche la propria esperienza biografica e fa notare come l’esigenza di un consumo critico, anche sul piano personale, sia nata a partire dagli anni ’90, legandosi progressivamente, negli anni successivi, a vasti movimenti transnazionali in opposizione alla globalizzazione neoliberista in atto anche nel settore agroalimentare.Contro questo modello economico devastante si sviluppò progressivamente un movimento alternativo a partire dall’organizzazione di piccoli e medi agricoltori“che si battevano (e si battono) per un cibo sano, prodotto con metodi ecologici, coltivato e scambiato a livello locale”. In quello stesso periodo nacque, anche in molti Paesidel Nord del mondo, una rete di negozi di commercio equo e solidale che tentava di fornire, almeno in parte, un ulteriore sbocco commerciale ai produttori del Sud. Al tempo stesso si sviluppavano i Gruppi di acquisto solidale che incoraggiavano anche nei Paesi più ricchi la creazione di un mercato in grado di produrre con gli stessi criteri di sostenibilità ambientale, economica e sociale.
Il venir meno della spinta di questi movimenti anche a causa di una feroce repressione (Genova 2001!) ha lasciato il “consumatore” (brutto termine che riduce gli esseri umani a semplici strumenti del mercato) solo di fronte alle proprie scelte alimentari; l’acquirente critico ha continuato a coltivare l’illusione di poter continuare a incidere sui meccanismi di produzione e distribuzione del cibo, senza rendersi conto che la mancanza di un rapporto con un movimento di trasformazione globale rischia di ridurre la sua azione a una sorta di testimonianza o addirittura di farne una vittima di forme di greenwashing. Attraverso forme di ecologismo di facciata, infatti, una parte del sistema agroalimentare legato alla grande distribuzione si lava la coscienza acquisendo al tempo stesso quote di mercato “verde”.
Nel frattempo la Grande distribuzione ha continuato la sua ascesa incontenibile in un mondo i cui oltretutto i consumi alimentari e in primo luogo quelli di carne, in alcuni Paesi del Sud globale, a causa del miglioramento delle condizioni di vita di alcune popolazioni e a mutazioni demografiche e culturali, tendono a un continuo aumento.
Oggi ci troviamo di fronte alla necessità di produrre cibo in quantità crescenti con un sistema di produzione e distribuzione che rischia di compromettere le condizioni di vita del Pianeta. Questo comporta la necessità di un approccio globale al problema e richiede mutamenti nelle dinamiche sociali complessive che tenga conto della necessità di superare ingiustizie e diseguaglianze economiche anche in questo campo.
Il consumo agroalimentare produce inoltre esternalizzazioni negative, cioè una serie di costi che vengono scaricati indirettamente sull’intera collettività e non ricadono direttamente sul prezzo dei singoli prodotti; si tratta dei costi relativi alle cure di coloro che soffrono le conseguenze dell’inquinamento atmosferico di cui anche il settore agroalimentare è responsabile, dei costi sanitari come conseguenza del cibo malsano, di quelli legati alla perdita di biodiversità e di quelli sociali dovuti a un’inadeguata retribuzione dei produttori.
Superare questi costi sociali, producendo cibo sano e accessibile per un numero crescente di esseri umani e al tempo stesso sostenibile per l’ambiente e per i produttori , ha a sua volta un costo al punto che una produzione agroalimentare rispettosa di questi necessari aspetti si tradurrebbe, secondo alcuni esperti, in un raddoppio del prezzo del cibo che acquistiamo e consumiamo.
I prezzi dei prodotti alimentari diverrebbero però in tal modo inaccessibili per quella parte di popolazione che già oggi vive in condizioni di povertà alimentare o vicine ad essa. Come si vede ci troviamo di fronte a una serie di problemi talmente complessi che non possono essere risolti facendo ricorso solo all’impegno individuale o caricando il singolo di sensi di colpa per non incidere abbastanza sulla realtà.
Dunque, l’impegno personale per un consumo critico risulta inutile e ci dobbiamo abbandonare all’impotenza di fronte a problemi così complessi? Dobbiamo insomma arrenderci a sistemi politici ed economici interessati a mantenere uno status quo che rischia di produrre i profitti di pochi e la povertà di molti oltre a una crescente devastazione ambientale?
Non è così anche se la strada per un’alternativa è lunga e impervia e le soluzioni non sono dietro l’angolo.
Un atteggiamento critico e consapevole verso quello che mettiamo sulle nostre tavole è importante, soprattutto se si diffonde e riesce a imporre alla politica e all’economia, anche in campo agroalimentare, quei cambiamenti radicali sempre più urgenti e necessari. Bisogna essere non più consumatori ma, almeno nelle società che (ancora?) lo consentono tornare ad essere “cittadine e cittadini (…), persone che fanno parte di una comunità. Torniamo a prendere la parola”.Esigiamo ad esempio un aumento dei salari adeguato alle necessità di rendere accessibile a tutti cibo sano per noi e per l’ambiente e prodotto con una giusta remunerazione degli agricoltori. Difendiamo la biodiversità che renda possibile una produzione agricola più varia e più resistente ai mutamenti climatici. Il consumo di carne, soprattutto nei Paesi più ricchi, deve diminuire sia dal lato della domanda che dell’offerta con una progressiva limitazione degli allevamenti intensivi, responsabili di un’insostenibile devastazione ambientale. La riduzione dello spreco alimentare poi non deve riguardare solo i nostri frigoriferi ma investire tutti i passaggi della filiera agroalimentare. Bisogna inoltre creare una solida alleanza fra produzione e consumo, facendo leva anche sull’iniziativa di agricoltori giovani e intraprendenti, consapevoli dei problemi legati all’odierna produzione di cibo.
Naturalmente anche l’impiego di moderne tecniche agrarie utilizzate al servizio di interessi comuni e non solo del profitto privato può essere di grande aiuto in questo necessario cambiamento epocale.
Insomma, anche in questo ambito la lotta per la giustizia climatica assume un ruolo fondamentale e ognuno deve fare la sua parte secondo il proprio ruolo e la propria responsabilità.