Pochi conoscono don Antonio Manuel, che a Roma è soprannominato affettuosamente Negrita. Fu il primo ambasciatore africano presso la Santa Sede, nel 1604. Nato come Nsaku Ne Vunda, prese il nome di Antonio Manuel dopo essere stato ordinato prete. Nel 1604 Alvaro II, re del Congo (un regno che corrisponde all’odierno Angola) lo inviò come ambasciatore presso la Santa Sede. Don Antonio Manuel giunse a destinazione solo quattro anni dopo, perché durante il viaggio dovette affrontare una vera e propria odissea: fu aggredito dai pirati, ma riuscì a rifugiarsi in Spagna e da lì riuscì, tre anni dopo, ad arrivare a Genova e poi a Roma. Molti dei suoi compagni di viaggio avevano perso la vita e la sua stessa salute ne risultò seriamente compromessa. Giunse a Roma all’inizio di gennaio del 1608, già gravemente malato. Siccome don Antonio Manuel non poteva muoversi dal letto, il Papa si recò al suo capezzale per ricevere l’ambasciata. Poche ore dopo quel colloquio, il prete africano morì. Non sapremo mai cosa si dissero i due uomini, ma sappiamo che il Papa fu profondamente colpito da quel colloquio, tanto da far organizzare funerali solenni, oltre a commissionare allo scultore Stefano Maderno un busto in pietra nera dell’ambasciatore, visibile nella chiesa di Santa Maria Maggiore, nella prima cappella a destra; un dipinto raffigurante don Antonio Manuel, risalente al 1615, si trova nella Sala dei Corazzieri del Quirinale.

La storia romanzata di Nsaku Ne Vunda è stata raccontata dallo scrittore Wilfred N’Sondè, nel suo romanzo Un oceano, due mari, tre continenti, scritto in francese nel 2018 e pochi mesi fa pubblicato in italiano dall’editore 66th and 2nd, con la traduzione di Stefania Buonamassa. Lo scrittore ricostruisce l’infanzia del piccolo Nsaku nel villaggio in mezzo alla foresta, la sua educazione cattolica che lo portò ai più alti livelli dell’istruzione di allora, fino al momento del viaggio verso Roma. L’Africa, a quei tempi, era conosciuta per la tratta degli schiavi verso le Americhe, e proprio in un bastimento che trasporta schiavi don Manuel si imbarcò. Nel libro è descritto tutto l’orrore della schiavitù, ed è questo orrore che dà la forza al prete di portare al termine il viaggio: deve assolutamente raccontare al Papa ciò che accade veramente, e chiedergli di fermare questa tratta. Durante il viaggio il prete conosce Martin, un giovane mozzo francese, unico personaggio non esistito realmente. Con Martin nascerà una bellissima e importante amicizia. Lo scrittore usa un linguaggio scorrevole, diretto, spesso poetico. Don Antonio Manuel è una persona pura, ingenua, che mai avrebbe potuto immaginare una simile realtà, se non se la fosse trovata davanti agli occhi. Senza giri di parole, l’autore ci racconta la tratta degli schiavi e ci mette di fronte alle responsabilità degli europei in ciò che accadde, pur senza tacere le responsabilità di quegli indigeni che favorirono la tratta. Mentre leggevo il romanzo, non potevo far a meno di pensare alle schiavitù di oggi: quanto sono diversi i viaggi della speranza di oggi, dal viaggio verso le Americhe di ieri? E come definire ciò che fanno i libici oggi, se non tratta di esseri umani?
Un libro che consiglio caldamente di leggere, non solo per imparare a conoscere un personaggio storico sconosciuto ai più, ma anche per riflettere su cosa sia stata la storia dell’umanità e su come, più o meno consapevolmente, non avendo imparato dagli errori, la stiamo ripetendo.