La destra italiana: un pericolo per la democrazia e la convivenza civile

Le recenti elezioni nel nostro Paese hanno prodotto un cambiamento nel panorama istituzionale che molti non esitano a definire preoccupante, soprattutto per quanto attiene a presidenzialismo, svolta sulla sicurezza, supremazia del diritto nazionale su quello dell’Ue. A ciò si aggiunga lo scivolone della votazione al Parlamento europeo di Lega e FdI a sostegno del cosiddetto “regime ibrido di autocrazia elettorale” di Victor Orban, in controtendenza rispetto a tutti gli altri partiti europei.

Non sappiamo ancora se l’Ungheria di Orban otterrà i finanziamenti previsti del PNRR a causa delle gravi limitazioni dei diritti umani, dato che in questi ultimi 4 anni le autorità ungheresi hanno attaccato l’indipendenza del potere giudiziario, hanno rifiutato di ratificare un trattato per la protezione delle donne dalla violenza, hanno adottato leggi omotransfobiche, calpestato i diritti dei rifugiati e dei richiedenti asilo e soppresso la libertà di espressione e di associazione: tutti provvedimenti contrari alla Carta europea dei diritti dell’uomo. E forse alla stessa sorte potrebbe andare incontro anche l’Italia visto l’allineamento sulle posizioni ungheresi dei partiti che si apprestano a governare. Sarebbe ovviamente una catastrofe per il nostro Paese che, senza i 209 miliardi che ancora ci spettano, si avvierebbe probabilmente verso un’ inesorabile impennata dello spread e un debito pubblico non più sostenibile.

Ma non è delle conseguenze economiche che mi voglio occupare, anche perché non credo di averne le competenze. Mi sento invece molto preoccupato per i rischi legati alla potenziale perdita dei diritti umani.

Sappiamo bene che nei Paesi democratici c’è un Parlamento che redige le leggi e una Corte costituzionale che verifica che esse siano in armonia con la Costituzione la quale, in genere, fa riferimento a quel sistema di valori, princìpi, ideologie e background culturale che sono propri di quella nazione.

Le varie Costituzioni moderne che appartengono al mondo occidentale si ispirano a due principi  fondamentali della Costituzione francese del 1789: la separazione dei poteri e una concreta autonomia tra gli spazi di Dio e quelli dell’uomo, tra diritto e religione.

Due punti ugualmente importanti, ma è sul secondo che vorrei soffermarmi particolarmente.

Oggi, a fronte dei crimini perpetrati dalle polizie di alcuni Stati (penso all’Egitto, all’Afghanistan o a quanto sta accadendo proprio in queste ore in Iran, dove una giovane donna, Masha Amini, è stata barbaramente uccisa per il solo fatto che il velo non copriva completamente i suoi capelli), possiamo facilmente comprendere il significato di Teocrazia costituzionale: si tratta di Paesi nei quali le autorità civili o religiose promulgano leggi  che affondano direttamente nel divino o, quantomeno, nell’interpretazione che gli uomini ne fanno; i precetti religiosi assumono il ruolo di fonte primaria del diritto vigente.

La laicità dello Stato è invece condizione essenziale affinché venga garantita a tutti la libertà religiosa, consentendo a chiunque di esprimere liberamente i propri convincimenti interiori e la propria spiritualità; aprendo all’individuo tutte le possibili opzioni connesse all’espressione della coscienza personale: credere e non credere; cambiare credenza, anche più volte nel corso della propria vita; appartenere ad un gruppo religioso ovvero recedervi e così via.

Quello che mi preoccupa sono invece quel “Dio, Patria e famiglia” urlato da Giorgia Meloni e i rosari agitati in mezzo alle piazze da Matteo Salvini e neanche l’elezione di Lorenzo Fontana alla Presidenza della Camera   mi sembra un buon segnale. E lo scrivo da credente, cattolico, praticante, sposato da 35 anni, con due figli e che ritiene giusto e doveroso pagare le tasse per il bene del mio Paese. Le tre parole in sé non hanno nulla di negativo, anzi! Ma lo diventano quando vengono sbraitate facendo assumere ad esse una connotazione esclusiva, cioè che taglia fuori chi non crede o professa fedi diverse; quando il modello di famiglia dell’altro non è lo stesso del mio; quando utilizzo il termine Patria per escludere tutti quelli che provengono da altre parti del mondo.

Oggi forse il pericolo maggiore della destra è il populismo, basato sulla demagogia   che produce odio per il diverso, facendo leva sull’identità nazionale e sul senso di appartenenza italico. Alcune affermazioni o provvedimenti di questo seppur variegato panorama della destra italiana vanno, purtroppo, in questa direzione, a partire dall’affossamento del Ddl Zan, che aveva come obiettivo quello di limitare i crimini di odio e discriminazione verso le minoranze LGBTQ+ all’attacco alla Legge 194 che, di fatto, andrebbe a mettere a rischio le donne economicamente più disagiate, costrette ad affidarsi alle mani delle praticone, mentre poco o nulla cambierebbe per le donne più abbienti che potrebbero facilmente rivolgersi a qualche clinica straniera, dove l’aborto viene praticato anche ben oltre le 12 settimane; e poi, non si sa bene nel nome di quale dio si lascerebbero affogare in mare o morire nei campi libici migliaia di persone paventando addirittura improponibili blocchi navali. D’altro canto, però, si ammette implicitamente, che l’Italia ha bisogno dell’immigrazione e per questo la leader di FdI afferma: «Ci sono milioni di persone che muoiono di fame. Sono cristiani, spesso sono di origine italiana, io dico: ci servono immigrati? Prendiamoli in Venezuela», senza considerare che la popolazione venezuelana è composta da un meticciato diffuso, il tasso di criminalità tra la popolazione più povera è elevatissimo, la cultura venezuelana è un melting pot di influenze indigene, africane e spagnole; un processo di acculturazione e assimilazione avvenuto in un clima di sincretismo culturale, come nel resto dell’America Latina. E forse senza neanche sapere che tra coloro che sbarcano sulle nostre coste da Paesi dell’Africa centrale e orientale la religione cristiana (ammesso e non concesso che se ne possa fare una forma di discrimine) è di gran lunga la più diffusa.

Lo stesso dicasi quando, periodicamente, si ritorna sull’obbligatorietà di esporre i crocifissi nei luoghi pubblici. Scrive Asmae Dachan, giornalista e scrittrice italo-siriana: «… Non credo affatto che questo sia il modo giusto per onorare e rispettare il crocifisso e lo dico da credente, anche se di una fede religiosa diversa. Sono musulmana, nata e sempre vissuta in Italia e il crocifisso fa da sempre parte della mia vita e della mia cultura; per questo ne difendo fermamente l’esposizione là dove è presente, quindi anche nelle scuole, ma non sono felice che diventi un simbolo politico, soprattutto in un clima teso e anche verbalmente violento come quello odierno. Ho sempre frequentato scuole dove il crocifisso era su tutte le pareti ed era un simbolo rispettato, vissuto.

Ricordo che prima di ogni verifica o quando qualcuno stava male, i compagni più religiosi si rivolgevano alla croce chiedendo aiuto e raccomandavano anche a me di «pregare a modo mio» affinché tutto andasse bene. Quel simbolo ci univa, rappresentava una speranza. Quella speranza di cui tutti abbiamo un profondo bisogno, per esempio, quando siamo in ospedale e ci sentiamo vulnerabili e tristi. Anche in questa circostanza vedere un crocifisso ricorda che la vita non finisce tra quelle quattro pareti, ma che sopra di noi e dentro di noi c’è l’immensità di Dio, quindi, la speranza, la fede, il vero antidoto alla sofferenza.

Per me il crocifisso è tutto questo e sono fiera di portarlo come simbolo sulla mia divisa da volontaria di Croce Rossa. Ai miei occhi il crocifisso fa emergere la parte più bella di noi e vederlo strumentalizzato come semplice oggetto, senza un accompagnamento di sentimento e fede, non mi piace. In questo frangente chi lo vuole imporre non sta facendo appello alle coscienze, alla pietas, alla solidarietà, ma al divide et impera…».

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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