La sera del 6 aprile 1994 il Presidente del Ruanda Habyarimana, massima espressione del potere hutu, muore, assieme al Presidente del Burundi, in un attentato al suo aereo personale. Poche ora più tardi comincia il più grande genocidio del dopoguerra; in cento giorni moriranno circa un milione di ruandesi: uomini, donne, bambini, tutsi o hutu che cercando di proteggere i tutsi, o che semplicemente si rifiutano di assassinarli.
Eppure in Ruanda si parla una sola lingua, il Kinyarwanda, si pratica una sola religione, quella cristiana, e la distinzione in etnie avvenne solo col colonialismo belga: venivano classificati come tutsi gli allevatori, i più ricchi, mentre gli agricoltori erano classificati come hutu. Nel caso di famiglie che possedevano sia terreni che bestiame, solo quelle che possedevano più di dieci capi di bestiame venivano considerate tutsi. A partire dagli anni ’30 il governo belga impose la registrazione dell’etnia sui documenti di identità. Il Governo (e il clero) appoggiò apertamente i tutsi, l’alta borghesia, fino alla metà degli anni ’50 quando, nel disperato tentativo di sedare le rivolte hutu e di continuare a mantenere un regime coloniale (che terminò comunque nel 1962), cominciò ad appoggiare gli hutu.
Dalla notte tra il 6 e il 7 aprile 1994 successero in Ruanda cose per noi inimmaginabili: i vicini di casa, i colleghi di lavoro, gli insegnanti, i conoscenti, da persone amiche diventarono nemici e assassini, in un periodo di follia sotto gli occhi del mondo intero, che assisteva inerte.
La casa editrice napoletana Marotta e Cafiero ha pubblicato il libro di una donna tutsi, Yolande Mukagasana, intitolato “La morte non mi ha voluta”, con la traduzione di Anna Cinzia Sciancalepore. Yolande è l’unica sopravvissuta della sua famiglia: il marito, i tre figli, le sorelle, il fratello, finiscono tutti vittime della violenza hutu. Yolande riesce a scappare in Belgio, dove si stabilisce e ottiene la cittadinanza, si rende conto che è suo dovere raccontare ciò che è accaduto, affinché l’umanità impari la lezione e non ripeta più gli stessi errori. Per il suo attivismo vince numerosi premi, fra cui il Premio Alexander Langer e il Premio donna del XXI secolo per la resistenza. Nel 2010 è stata candidata al Premio Nobel per la Pace.

La morte non mi ha voluta è il diario di quei giorni in cui la vita si capovolse. Yolande si descrive così: “Sono una capoinfermiera con tre figli, un marito e dei parenti sparsi dappertutto, nel Paese e fuori. Sono una tutsi, questo è il mio torto più grande. Sono benestante, è il mio secondo torto. Sono orgogliosa, è il terzo”. Yolande è una persona molto rispettata nel quartiere dove vive, ha aiutato tante donne a partorire, ha curato uomini e donne dalle più svariate malattie e all’improvviso la maggior parte dei suoi pazienti le diventa nemica. Con i figli decide di scappare nella foresta, quando si rende conto che lei è una delle taglie più pregiate; il marito è costretto invece a seguire le ronde di uomini, ma è convinto che lo lasceranno in vita, almeno fino a che Yolande non sarà catturata. Purtroppo non sarà così…
La Mukagasana riesce a spiegare i laceranti conflitti che attraversano le famiglie nel dialogo tra due fratelli, uno dei quali ha sposato una donna tutsi:
“Mi annoi, Anastase. Che c’è scritto sulla tua carta d’identità? Che sei hutu, no?”
“La carta d’identità etnica! Un’invenzione dei belgi, che non hanno capito niente della nostra società in continua mutazione”.
“Un’invenzione dei begli? Eh! Tua moglie è tutsi! Guardala. E’ alta e ha le gambe robuste. Non è una razza questa?”
“E’ tutsi, è vero. Ma il suo bisnonno era hutu. Era un uomo intelligente. Aveva ereditato quattro bestie alla morte di suo padre. Ne ha lasciate sessanta a suo figlio. E’ per questo che hanno finito per chiamarlo “tutsi”, perché era diventato ricco.”
Yolande sa di essere la preda più appetita, e capisce che deve separarsi dai figli; non senza difficoltà, riesce a portarli a casa di una cugina, che se ne occuperà fino a quando non verranno catturati. Yolande sopravviverà grazie all’aiuto della sua amica hutu Emmanuelle, che la nasconderà per diversi giorni sotto il lavello della sua cucina, e poi l’aiuterà, con la complicità di altri hutu, a trovare rifugio in una chiesa. Emmanuelle l’aiuterà per l’amore che prova, qualcun altro l’aiuterà in cambio di denaro, altri ancora perché non hanno il coraggio di ucciderla.
La storia di Yolande ci ricorda da vicino la storia di tanti ebrei vittime dell’olocausto. Sappiamo quanto sia necessario conoscere la Storia, per evitare di ripeterne gli errori, e quanto le testimonianze dirette possano aiutare a comprendere. Una delle più importanti testimoni dell’olocausto in Italia è la Senatrice Liliana Segre. Yolande Mukagasana è senza dubbio la Liliana Segre ruandese.