Prima di parlare della Palestina voglio ricordare queste magnifiche parole di Dietrich Bonhoeffer, teologo e pastore luterano, impiccato nel carcere di Flossemburg il 9 aprile 1945 per aver organizzato, nel 1939, una congiura per uccidere Hitler.
Arrestato, viene messo in carcere, dove scrive molte lettere di sublime bellezza, raccolte nel libro “Resistenza e resa: lettere e altri scritti dal carcere”, in cui troviamo queste righe:
“Resta un’esperienza d’eccezionale valore, l’aver imparato infine a guardare i grandi eventi della storia universale, dal basso della prospettiva, degli esclusi, dei sospetti, dei maltrattati, degli impotenti, degli oppressi e dei derisi, in una parola, dei sofferenti. Se in questi tempi (1945), l’amarezza, l’astio, non ci hanno corroso il cuore, se dunque vediamo con occhi nuovi le grandi e le piccole cose, la felicità e l’infelicità, la forza e la debolezza e se la nostra capacità di vedere la grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile. Se anzi la sofferenza umana è diventata una buona chiave, un principio fecondo nel rendere il mondo più accessibile attraverso la contemplazione e l’azione, tutto questo è una fortuna personale.”
Ecco, io credo di aver avuto questa enorme “fortuna” (dico fortuna perché da un lato sono esperienze che arricchiscono umanamente, dall’altro ci consentono di conoscere la realtà al di là di come ce la presentano giornali e televisioni), grazie anche ad amici straordinari come quelli dell’associazione Mamre di Borgomanero. Ho avuto la possibilità di guardare gli eventi delle Storia di oggi “dal basso”, cioè dalla parte dei migranti che percorrono la rotta balcanica; li abbiamo incontrati molte volte in Bosnia, ma anche a Trieste, Bussoleno, Ventimiglia, Abbiamo incontrato i profughi siriani nei campi del Libano (e, successivamente, anche la popolazione libanese impoverita a causa di una terribile crisi economica che vede nei suoi governanti corrotti la causa di questa tragedia). In Ucraina, nel corso delle numerose missioni umanitarie, abbiamo conosciuto il dolore delle vittime di questa terribile guerra che i potenti del mondo intendono intensificare, anziché cercare spazi per delle trattative che mettano fine agli altissimi costi in termine di vite umane: basta sangue, basta lutti. Pensiamo non solo alle conseguenze sui corpi delle vittime della guerra (arti amputati, visi sfigurati, ustioni devastanti), ma anche alle ferite indelebili sulla psiche dei giovani militari; e pensiamo anche agli effetti sulla psiche dei più piccoli, costretti a vivere nei rifugi antiaerei, negli scantinati, nelle stazioni della metropolitana e altre aree sotterranee, affrontando missili, bombe, carri armati; condannati a vedere con i loro occhi case distrutte, persone insanguinate, corpi smembrati… Quale futuro potranno avere questi bambini?
E pensiamo anche ai rischi di un allargamento di questa guerra.
E, sempre dal basso, ho potuto conoscere le condizioni in cui è costretta a vivere la popolazione palestinese. Non quella di Gaza (dove, da sempre, è molto difficile ottenere il permesso d’entrata da parte degli israeliani), ma quella della Cisgiordania, un territorio che, secondo l’Onu, insieme alla striscia di Gaza e Gerusalemme est, dovrebbe costituire lo Stato di Palestina, ma che di fatto è sotto lo stretto controllo militare israeliano e sul quale si sono insediate circa 280 colonie israeliane (tutte illegali secondo l’Onu e, in parte, anche secondo lo stesso governo israeliano) nelle quali vivono 750.000 coloni. Le colonie sono posizionate nei punti più alti del territorio, si accaparrano tutte le sorgenti e i pozzi d’acqua e impediscono ai palestinesi di approvvigionarsene, scavando pozzi o anche solo raccogliendo l’acqua piovana (in un villaggio beduino poverissimo, in mezzo al deserto, ci viene mostrata una cisterna distrutta dalla benna di un bulldozer). Le abitazioni dei palestinesi spesso vengono abbattute adducendo motivazioni inconsistenti (ostacolano la visibilità mettendo a rischio la sicurezza); gli ulivi vengono sradicati, le pecore avvelenate; i bambini che transitano in prossimità della colonia per recarsi a scuola vengono presi a sputi e sassate (prezioso, in questo senso, il lavoro dei volontari italiani di Operazione Colomba, i Corpi di Pace dell’Associazione papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi, che fanno scudo con i loro corpi e filmano questi soprusi e prepotenze, cosa che i coloni non gradiscono). E poi c’è la questione dei cosiddetti “arresti amministrativi”, che non prevedono un capo d’imputazione e che spesso coinvolgono bambini che vengono trattenuti in carcere in condizioni disumane, anche per mesi. E nel solo 2023 militari e coloni hanno ucciso “illegalmente” 507 palestinesi di cui almeno 81 minorenni (fonte Amnesty International). Tutti questi delitti sono rimasti naturalmente impuniti.
Nello scorso mese di giugno il governo israeliano ha autorizzato la realizzazione di altre cinque nuove colonie.
Ad Hebron, città che ospita le tombe dei patriarchi venerati dalle tre religioni (Abramo, Isacco, Giacobbe e le rispettive mogli), le tombe sono separate a metà da una parete che divide la moschea dalla sinagoga. Qui 5.000 soldati israeliani sono a protezione di 700 ebrei a fronte di 215.000 palestinesi. Gli ebrei si insediarono ad Hebron nel 1967, fingendosi pellegrini e occupando un hotel che poi si rifiutarono di lasciare. In seguito, hanno occupato con la violenza e l’appoggio dell’esercito, i piani più alti delle case, gettando ogni sorta di rifiuto dalle finestre, per cui i palestinesi che vivono nel suq al piano strada, hanno dovuto proteggersi stendendo delle reti e delle lamiere sopra le loro teste. Le porte delle abitazioni palestinesi devono rimanere costantemente aperte per consentire ispezioni da parte dei militari israeliani in qualsiasi ora del giorno e della notte, terrorizzando anche i bambini. La comunità di coloni israeliani presenti ad Hebron è composta in gran parte da nazionalisti religiosi e costituisce una delle comunità più aggressive nei confronti della locale popolazione palestinese.
Nel 1994 vi fu una terribile strage ad opera di un terrorista statunitense-israeliano entrato all’interno della tomba dei Patriarchi di Hebron. Baruc Goldstein, questo il nome del terrorista, entrò vestito da militare e armato di fucile mitragliatore, superando senza difficoltà i superficiali controlli e si mise a sparare all’impazzata sui palestinesi musulmani in preghiera. Il massacro provocò 29 vittime e circa 125 feriti tra i fedeli presenti nella struttura, mentre Goldstein fu picchiato a morte dai superstiti.
A Betlemme abbiamo conosciuto il dottor Nidal Salameh, che nella sua clinica offre cure gratuite ai poveri. Il medico ci ha detto: “La questione palestinese è questione di diritti: vogliamo essere liberi nella nostra terra”.
Per la sua ferma e costante convinzione che i diritti appartengono a tutti, ha pagato un prezzo altissimo: un anno di arresto per aver studiato all’estero, il successivo divieto di proseguire i propri studi in Italia e l’arresto dei figli di 16 e 13 anni. Spesso i militari irrompono nella clinica mettendo tutto a soqquadro, distruggendo apparecchiature, facendo sparire le cartelle cliniche…
Eppure, il dott. Nidal resiste, si oppone all’ingiustizia in modo nonviolento, nonostante quel muro di cemento lungo 730 km e alto 8 metri che sembra circondare e soffocare anche la più piccola ambizione di libertà.