L’avocado è il frutto della Persea gratissima, originaria del Messico dove ancora oggi si concentra la maggior parte della sua produzione; è diventato un prodotto di largo consumo nei mercati nordamericani ed europei, sviluppo che secondo gli esperti è destinato ad accentuarsi nei prossimi anni. Questo crescente successo è dovuto al suo alto valore nutritivo e salutistico, al suo sapore delicato che lo rende un ingrediente versatile per molte ricette, oltre naturalmente a sapienti operazioni di marketing sostenute da chef di tendenza.
Secondo alcune stime il mercato mondiale dell’avocado valeva 14 miliardi di dollari nel 2021 e potrebbe raggiungere i 30 miliardi entro il 2030. I maggiori profitti vanno a un piccolo numero di gruppi agrario-industriali integrati verticalmente, in grado di espandere la loro attività in nuovi Paesi produttori e di esercitare il loro controllo sull’importazione nei mercati più ricchi.
Il consumo massiccio pone però una serie di problemi rispetto ai quali il consumatore non può rimanere indifferente.
Nel 2021 il Messico deteneva il 40% della produzione mondiale e in questo Paese viene definito oro verde pel i cospicui guadagni generati dalla sua produzione e commercializzazione. L’incremento esponenziale della produzione messicana è dovuto anche alla richiesta del mercato statunitense, in concomitanza con i problemi di disponibilità di risorse idriche della California che continua a produrre in misura massiccia per il mercato interno in regime protezionistico ma è confrontata con crescenti problemi di siccità che, con un tipico meccanismo neocolonialista, vengono appunto “esportati” soprattutto verso il vicino Messico.
Le bande criminali che infestano il Paese centroamericano non hanno naturalmente esitato a mettere le mani su un affare così proficuo, scatenando una guerra sanguinosa per il controllo della produzione e del commercio del prodotto nonché fenomeni di coercizione violenta nei confronti dei piccoli produttori.
Il Paese ha dunque conosciuto la diffusione massiccia di colture intensive con gravi conseguenze per gli esseri umani e per l’ambiente.
Secondo un rapporto di Grain, un’organizzazione internazionale che sostiene i piccoli agricoltori e la biodiversità, nello stato messicano di Michoacan, dove si concentra il 75% della produzione messicana, la superficie riservata alla coltivazione di questo frutto è più che raddoppiata fra il 2010 e il 2020, passando da 78.000 a 170.000 ettari.
La coltivazione di avocado richiede l’impiego di 100.000 litri d’acqua al mese per ettaro e comporta una deforestazione che ha fra le altre conseguenze la distruzione della biodiversità e la distorsione del ciclo naturale dell’acqua.
L’uso indiscriminato di insetticidi, pesticidi e fertilizzanti chimici danneggia sotto vari aspetti gli equilibri ambientali e provoca la contaminazione delle falde acquifere.
Agli stessi problemi vanno incontro gli altri Paesi in cui sono presenti piantagioni di avocado destinato all’esportazione quali, fra gli altri, la Colombia, il Perù. l’Indonesia, il Kenya e il Cile; in quest’ultimo Paese i grandi produttori di avocado hanno di fatto monopolizzato il possesso dell’acqua nelle zone in cui si concentrano le loro piantagioni, sottraendola alle necessità vitali delle popolazioni locali. In Kenya le recinzioni intorno alle piantagioni mettono in pericolo la vita degli elefanti, intralciando la lora ricerca di cibo e di acqua.
Il trasporto dell’avocado dalle zone di maggiore produzione ai mercati di maggior consumo ha un notevole impatto ambientale; secondo uno studio del Politecnico federale di Zurigo, il trasporto di un chilo di avocado dal Cile alla Svizzera comporta l’emissione di 0,6 chili di Co2 se avviene per via marittima e di ben tredici nel caso di trasporto aereo,
I cambiamenti climatici permettono ormai la coltivazione dell’avocado anche in area mediterranea e in effetti si registra una produzione sempre crescente in Spagna e nel Sud dell’Italia. Resta difficile capire come sia possibile evitare problemi di approvvigionamento idrico in zone come queste già alle prese con una siccità cronica.
Proprio la regione messicana di Micoachan ha visto una reazione popolare a queste forme di sfruttamento disumano e al devastante furto di risorse; la comunità Purepecha di Cheran si è appellata al Tribunale permanente dei popoli denunciando le violenze e la sottrazione di risorse causate anche dalle piantagioni di avocado. La stessa popolazione ha messo in atto una forma di controllo del territorio che vede in primo piano le donne, con l’istituzione di una sorta di polizia comunitaria per proteggere il territorio e la popolazione dalle continue angherie messe in atto da bande paramilitari al servizio dei cartelli agroindustriali con la complicità delle autorità locali. La comunità tenta anche di sperimentare nuove forme di democrazia e costituisce un modello di resistenza e organizzazione che influenza altre comunità alle prese con problemi analoghi.
Di fronte a tutte queste problematiche è chiaro che noi consumatori del ricco Occidente non possiamo girare la testa dall’altra parte.
Occorre affidare i propri consumi a filiere controllate che in qualche modo garantiscano in primo luogo la dignità umana ed economica dei piccoli produttori e una limitazione dei danni ambientali. Nelle sue dimensioni complessive, tuttavia il problema comporta l’insostenibilità dei consumi attuali e ancor più di quelli previsti in prospettiva, in quanto il Pianeta non può sopportare una simile consumo di risorse.
In questo come in altri campi lo sviluppo della produzione non può essere infinito e sarà necessaria una riconversione produttiva profonda che richiede trasformazioni sociali sicuramente non gradite ai giganti del business agro-alimentare; un vasto programma non certo facile e indolore da realizzare ma che è una parte di quello che serve per dare un futuro all’umanità.