Alle Olimpiadi che si aprono a Parigi parteciperà anche una squadra diversa dalle altre, quella dei rifugiati, che rappresenta i 120 milioni di esseri umani che condividono la stessa condizione.
La squadra è composta da 36 persone, fra cui tredici donne più la capa missione, la ciclista afghana Ali Zada, selezionate in base alla loro condizione di rifugiato o rifugiata, certificata dall’Unhcr, (l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati), e alle loro prestazioni atletiche nelle rispettive discipline, come richiesto a tutti i partecipanti alla competizione. Si tratta dunque di una rappresentanza sportiva i cui membri sono in grado di gareggiare alla pari con tutti gli altri, tanto da poter aspirare a qualche buon piazzamento.
La presenza della rappresentativa dei rifugiati è resa possibile da borse di studio finanziate dal programma Solidarietà olimpica, una società che dagli anni ’80 sostiene i programmi sportivi dei Paesi non economicamente autonomi.
La maggior parte delle atlete e degli atleti della formazione provengono da Paesi africani tormentati da gravi crisi umanitarie.
L’etiope Farida Abaroge, che gareggerà nei 1500 metri, ad esempio, ha lasciato il suo Paese, in quanto perseguitata politica, all’età di 23 anni ed è riuscita a raggiungere la Francia dopo aver attraversato il Sudan, l’Egitto e la Libia.
Perina Lokure, mezzofondista, è fuggita dal Sudan nel 2003 all’età di sette anni e ha vissuto a lungo in un campo profughi in Kenya, Paese in cui vive e si allena.
Cindy Ngamba, una pugile camerunense ha rischiato l’espulsione dalla Gran Bretagna dove era riuscita a fuggire e ha ottenuto la protezione umanitaria in quanto omosessuale, dato che in Camerun l’omosessualità è perseguita per legge.
Mahomad Ali Zada, che guida la delegazione, ha fatto parte in Afghanistan di un gruppo di cicliste ma questa pratica sportiva è risultata invisa alla parte più conservatrice della società di quel Paese. Durante gli allenamenti lei e le sue compagne erano spesso oggetto di atti di ostilità anche violenti.
Insieme alla famiglia è stata costretta a fuggire dall’Afghanistan, anche per la sua appartenenza alla minoranza hazara, che da sempre subisce persecuzioni per motivi etnici e religiosi, e a rifugiarsi in Francia dove studia ingegneria; nel 2021 ha fatto parte della rappresentativa delle persone rifugiate alle olimpiadi di Tokyio.
Due membri della squadra vivono e gareggiano In Italia: gli iraniani Iman Mahdawi che competerà nella lotta libera e Hadi Tiranvalipour che gareggerà nel taekwondo.
Chiara Cardoletti, rappresentante italiana nell’Unhcr sottolinea l’importanza di una presenza olimpica dei rifugiati, che costituisce un’occasione per prestare un ascolto complessivo ai bisogni più profondi non solo dei partecipanti alle Olimpiadi ma di tutti i rifugiati ”Troppo spesso la narrazione che li riguarda mette in luce solo i bisogni primari, tralasciando il rispetto e la determinazione che portano con sé” che si esprimono anche attraverso la pratica sportiva. Intervistato dal periodico Vita, che dà ampio risalto alla presenza “italiana” nella rappresentativa, Hadi Tiranvalipour confessa l’emozione e al tempo stesso la responsabilità di rappresentare in qualche modo i sogni e le speranze dei rifugiati di tutto il mondo. Hadi, 26 anni, è stato già componente della nazionale di taekwondo nel suo Paese di origine, riportando importanti successi; da due anni è stato costretto, a causa delle sue idee non gradite al regime iraniano, a rifugiarsi In Italia
La creazione di una squadra di rifugiati venne annunciata per la prima volta dal Presidente del Comitato Olimpico internazionale nel 2015 come risultato di una collaborazione fra l’organismo olimpico e l’Unhcr. Nel 2016 per la prima volta la rappresentanza delle persone rifugiate ha partecipato alle Olimpiadi che si sono svolte a Rio de Janeiro. La squadra era composta da 6 atleti e da 4 atlete.
Per le successive Olimpiadi di Tokyo del 2021 la squadra era invece composta da 29 atleti provenienti da 11 Paesi e selezionati con i criteri validi anche per le Olimpiadi di quest’anno in cui la rappresentativa avrà per la prima volta un proprio simbolo, che raffigura un cuore circondato da frecce colorate.
La partecipazione di una squadra dalla composizione così variegata è in fondo un contributo a quell’autentico spirito sportivo che appare sempre più estraneo a Olimpiadi saldamente dominate da interessi economici e soffocate dai nazionalismi esasperati.
Questa partecipazione olimpica potrebbe avere anche il merito di sollevare un minimo di attenzione su tutte le persone rifugiate del mondo che spesso, anziché accoglienza e rispetto umano, ricevono ostilità e disprezzo; che questo possibile momento di empatia produca un risultato duraturo e non si traduca in un’effimera espressione di buoni sentimenti dipende in fondo un po’ da tutti noi.