Parole in guerra

La guerra combattuta o la preparazione ad essa è tornata di attualità in tutto il mondo; anche le parole si adeguano a questo bellicismo diffuso o per nascondere la realtà della guerra in atto o per preparare al suo avvento, spesso presentato come ineluttabile anche allo scopo immediato di   promuovere un riarmo generalizzato.  Considerare un evento ineluttabile e accettabile è in effetti il modo migliore per favorire e accelerare il fatto che si verifichi effettivamente e nel frattempo incrementare i fatturati delle industrie belliche Questo è evidente  riguardo al conflitto russo- ucraino e al suo possibile allargamento; accanto al despota russo che ne è il principale responsabile e che non fa nulla per spegnere l’incendio da lui provocato, si colloca la bellicosa inerzia diplomatica  dei governi europei e della stessa Unione europea, i cui massimi rappresentanti, incapaci di qualsiasi  autonomia, non fanno altro che favorire il riarmo anche psicologico dell’intera comunità. È di pochi giorni fa, ad esempio, una dichiarazione di Ursula von der Leyen che lamenta l’impreparazione della popolazione europea a sostenere il peso di un conflitto, auspicando ovviamente che questa remora venga presto superata.

Un’analisi delle parole e delle espressioni che in qualche modo giustificano, preparano o fomentano, un clima bellico può essere un modo per capire “a che punto è la notte”.

“Operazione speciale” è il nome che Putin ha dato all’aggressione all’Ucraina per occultare   di fronte al mondo la realtà di una gravissima violazione del diritto internazionale ma anche per minimizzare l’evento di fronte al suo stesso popolo. L’uso di questo eufemismo è un modo per trasformare la guerra in un’operazione di polizia che ha lo scopo di ripulire quello che in fondo viene considerato come il proprio territorio   dai “nazisti ucraini”, richiamando in qualche modo anche l’epica lotta del popolo russo nella Seconda guerra mondiale contro la Germania nazista.

“Effetti collaterali della guerra“è un altro eufemismo preso dal linguaggio farmacologico e serve a nascondere la realtà che le vittime di qualsiasi azione bellica o terroristica sono sempre più i civili, colpiti spesso a morte o costretti a fuggire non per errore come si vorrebbe far credere ma sempre più deliberatamente, come avviene a Gaza, dove in un certo senso è in atto la sanguinosa prova generale della logica che guiderà i conflitti futuri.

Il cosiddetto piano Lavender, predisposto dall’esercito e dall’intelligence israeliana prevede infatti l’eliminazione di 37.000 palestinesi considerati nemici da eliminare a insindacabile giudizio delle autorità israeliane. Secondo quanto rivelato da esponenti degli stessi servizi segreti israeliani, Lavender è un database che incrocia dati su obiettivi da colpire affidando le indicazioni sulle azioni militari da intraprendere agli strumenti dell’Intelligenza artificiale e calcolando come accettabile il coinvolgimento di 15-20 “vittime collaterali” per ogni miliziano di Hamas o della Jiad islamica colpito e di ben cento civili per ogni funzionario di alto rango.

Come si vede non si tenta più nemmeno di camuffare la strage di civili come frutto di incidenti bellici ma la si pianifica minuziosamente, magari affidandone in gran parte la responsabilità all’intelligenza artificiale e riducendo al minimo l’intervento e il controllo umano.

“Male assoluto” è un concetto ovviamente non nuovo rievocato in particolare nello scontro fra Israele e Iran e usato in modo reciproco da entrambe le parti in conflitto.

La definizione di male assoluto implica ovviamente l’altrettanto assoluta impossibilità di giungere a qualsiasi compromesso e postula perciò la continuazione del conflitto fino alla totale distruzione del nemico.

Nella fase attuale si assiste anche alla banalizzazione della possibilità di utilizzare armi atomiche nel corso di un conflitto, ipotizzando l’utilizzo di “armi atomiche tattiche” di cui ormai si parla apertamente come possibili strumenti bellici nel corso di un conflitto regionale.  A differenza delle armi nucleari strategiche sono facilmente trasportabili e utilizzabili nel corso di uno scontro armato su un campo di battaglia. Il loro uso è stato più volte ipotizzato o minacciato nel corso dell’attuale conflitto russo-ucraino e la minaccia appare tanto più concreta per il fatto che l’esercito russo ne dispone ampiamente e le ha già dislocate e preparate all’uso in particolar modo in Bielorussia; hanno una gittata  inferiore alle armi atomiche strategiche e il loro potere distruttivo definito “limitato” è in genere non  molto inferiore alle bombe sganciate a Hiroshima e Nagasaki, senza contare il fatto che l’impiego concentrato di armi di questo tipo potrebbe avere effetti non dissimili da quello delle atomiche strategiche.

Da un punto di vista anche psicologico queste armi atomiche ”tascabili”, di fatto, rompono il tabù della possibilità di tornare a utilizzare ordigni atomici e  facilita la possibilità di un’ulteriore proliferazione nucleare che potrebbe coinvolgere non solo un numero crescente di Stati ma anche gruppi terroristici. 

 Nel clima attuale non manca la rievocazione di frasi e detti storici per giustificare la corsa generalizzata al riarmo come un dato inevitabile anche per Paesi attualmente non direttamente impegnati in conflitti bellici.

“Se vuoi la pace prepara la guerra”, in genere citato in latino forse nell’illusione di una maggiore autorevolezza, viene fatto passare come un detto di saggezza con radici antiche mentre non fa che confermare l’ineluttabilità della moltiplicazione degli armamenti  che spesso è il presupposto del loro utilizzo. La corsa al riarmo è attualmente un fenomeno generalizzato che coinvolge praticamente tutti i Paesi del mondo in una fase non particolarmente prospera dell’economia mondiale. Perfino un Paese ricco come la Svizzera sta operando tagli di bilancio un po’ in tutti i settori a partire dalla spesa sociale e dagli aiuti ai Paesi poveri mentre al tempo stesso prevede grossi finanziamenti al settore militare.

In Paesi meno fortunati le spese militari tolgono direttamente alla popolazione beni essenziali; warfare contro welfare un po’ ovunque, insomma, sia pure con incidenza diversa.

 Senza pensare a una prospettiva attualmente utopistica di rinuncia a una difesa militare, si trascura il fatto che i progetti di sviluppo e l’eliminazione di situazione di povertà estrema sono modi concreti per evitare i conflitti per cui suona più realistico ipotizzare che per ottenere la pace bisognerebbe preparare la pace.

Deterrenza è in fondo la versione moderna adattata all’era atomica del precedente detto latino per cui, con le variazioni del caso, valgono le stesse controindicazioni.

Sarà anche vero che la minaccia  reciproca di distruzione totale delle potenze nucleari  ha  implicato, almeno finora, la rinuncia all’uso delle  armi atomiche  ma è pur sempre vero che ogni singolo Stato, per essere credibile, deve comunque mostrarsi disposto a  sferrare un attacco letale; si entra in tal modo  in una spirale pericolosa di mosse e contromosse in cui l’equivoco o l’errore sulle intenzioni dell’avversario può comunque indurre ad attacchi distruttivi magari non esplicitamente pianificati;  la vera alternativa sarebbe un piano di disarmo basato sulla costruzione di una fiducia reciproca di cui nell’attuale  situazione internazionale non si vede traccia.

L’elenco delle parole in guerra potrebbe continuare ma mi pare già evidente che come sempre le parole non sono innocenti e riflettono un clima o addirittura lo promuovono.

“Smilitarizzare” il linguaggio non servirà certamente a sminare il terreno su cui l’umanità sta pericolosamente camminando ma se accompagnato da una crescente e diffusa volontà di pace potrà essere un piccolo ma concreto contributo nella giusta direzione.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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