Srebrenica trent’anni dopo.
A trent’anni dl genocidio di Srebrenica Sconfinamenti ha chiesto a Marco Magini di riflettere su quella tragedia umanitaria non solo in termini commemorativi ma anche con uno sguardo rivolto alla realtà di oggi, non solo della regione balcanica.
Marco Magini, che si occupa professionalmente di economia ambientale e ha già cortesemente collaborato con questo blog, ha pubblicato nel 2014 per l’editore Giunti Come fossi solo, incentrato appunto sull’eccidio di Srebrenica. Il romanzo è stato tradotto in varie lingue e ha ottenuto, oltre a numerosi riconoscimenti internazionali, la menzione d’onore del Premio Calvino nel 2013, nonché la candidatura al Premio Strega del 2014.
https://premiostrega.it/PS/libro/come-fossi-solo/
Per cominciare proviamo a sintetizzare gli avvenimenti di Srebrenica trent’anni fa inserendoli nel loro contesto.
Trent’anni fa Srebrenica, nel corso delle guerre fra le ex repubbliche jugoslave, era un’enclave musulmana all’interno della parte serba della Bosnia e per questo l’Onu aveva dislocato un contingente di caschi blu con lo scopo di proteggere la popolazione musulmana. Invece, nel luglio di trent’anni fa, la componente maschile di quella comunità musulmana fu separata dal resto della popolazione e sistematicamente massacrata; nel giro di tre giorni fu compiuto quello che è stato riconosciuto come un genocidio da parte di unità dell’Esercito della Srpska, la Repubblica serba della Bosnia Erzegovina, nonostante la presenza delle truppe dell’Onu che anzi, da un punto di vista logistico, finirono per facilitare l’eccidio.
Oggi come vedi la situazione a Srebrenica e in generale nella regione?
Uno degli autori degli accordi di Dayton, che posero fine alla guerra in Bosnia Erzegovina, ha espresso la propria meraviglia per il fatto che un accordo così fragile abbia retto così a lungo. Oggi la situazione nella regione è molto complessa per motivi intrinseci, con manifestazioni che esprimono l’insoddisfazione, soprattutto dei più giovani, sia in Serbia che in Bosnia. Inoltre, le tensioni etniche sono molto forti in quanto, come spesso è avvenuto anche in passato, i Balcani riflettono contrasti geopolitici che hanno dimensioni più vaste.La Serbia è storicamente filorussa, la Bosnia guarda verso la Turchia che è un Paese musulmano, la Croazia e la Slovenia fanno parte dell’Unione Europea, il Kosovo risente di tensioni risalenti all’inizio del millennio, il Montenegro ha conosciuto una serie di scandali legati alle attività malavitose che l’affliggono mentre la Macedonia del Nord rimane in forte contrasto con la Grecia. Visti nel loro complesso, insomma, i Balcani appaiono tuttora attraversati da una serie di contrasti non risolti che hanno profonde radici storiche. La dissoluzione della Jugoslavia, una comunità socialista e multietnica, ha portato alla creazione di comunità nazionali altrettanto artificiali, basate a volte su criteri linguistici, a volte religiosi, a volte su un mix linguistico-religioso, a volte su criteri geografici; le attuali tensioni internazionali contribuiscono a rendere ancora più instabile la situazione.
Lo storico Eric Gobetti in un articolo recentemente pubblicato da il manifesto ha descritto la Srebrenica di oggi come una città totalmente abbandonata, della cui decadenza economica e civile sono responsabili due opposti nazionalismi. Gobetti si spinge ad osservare, confessando di non avere prove oggettive di questo sospetto, che anche da parte musulmana non ci fu trent’anni fa una grande volontà di difendere la comunità musulmana di Srebrenica.
Sono molti anni che non torno a Srebrenica ma a livello politico sulla situazione attuale posso condividere questo giudizio: tutto il mondo mostra una grande volontà di dimenticare Srebrenica, a dimostrazione del fatto che l’illusione della storia come maestra di vita da cui l’umanità trarrebbe utili insegnamenti non trova purtroppo riscontro nella realtà. Per quanto riguarda il genocidio del luglio 1995, mi sembra che l’affermazione di Gobetti non sia condivisibile; la componente musulmana nel suo insieme combatteva vigorosamente da anni, nonostante non disponesse di grandi risorse. Il sospetto di Gobetti appare perciò alquanto dietrologico e formulato a posteriori senza tenere conto che, nel momento in cui avvenne, il genocidio era inimmaginabile un po’ per tutti, almeno nelle sue dimensioni, anche per la presenza di truppe dell’Onu che avrebbero dovuto proteggere la popolazione musulmana di Srebrenica.
Nel 2014 tu hai pubblicato Come fossi solo che ha al centro una vicenda svoltasi nell’ambito del genocidio di Srebrenica. Si tratta di un testo che per la sua accurata documentazione sul genocidio e sulle vicende giudiziarie successive supera la dimensione puramente narrativa. Che cosa ha spinto un giovane come te a occuparsi in modo così approfondito di luoghi e vicende che non implicavano un tuo coinvolgimento diretto?
La vicenda è incentrata sul ruolo del protagonista, Drazen Erdemovic, che ho scoperto per caso attraverso un incontro. Il mio coinvolgimento nasce anche dal fatto che al momento dei fatti narrati il protagonista aveva la stessa età che avevo al momento in cui ho scritto il libro. La biografia del protagonista riflette la situazione della Jugoslavia che in quegli anni si stava dissolvendo. Drazen si arruola solo verso la fine della guerra, senza convinzione, per necessità. Viene costretto ad arruolarsi nelle truppe serbe e portato a Srebrenica; quando si rende conto che gli viene ordinato di uccidere civili inermi si ribella a quest’ordine. Il comandante lo informa che se continuerà a disobbedire verrà lui stesso giustiziato e che i civili che vorrebbe salvare verranno comunque uccisi. In questa situazione l’unico modo per essere giusto è scegliere di morire. Alla fine, Drazen decide di partecipare alla strage portandosi dietro un enorme senso di colpa che lo induce, a distanza di mesi, a essere uno dei primi a rivelare alla stampa l’eccidio perpetrato.Fino a quel momento i fatti di Srebrenica non erano noti nella loro gravità e anche questo mi induce a respingere teorie cospiratorie al riguardo. Drazen finisce dunque a processo davanti al tribunale delle Nazioni Unite all’Aja. Fin dalle prime battute dell’iter processuale emerge con drammaticità il problema di come sia possibile esercitare la giustizia in una situazione così estrema.Qual è il criterio di giustizia in una situazione così estrema? Esiste un modo di essere giusti a Srebrenica? Questo legame fra una vicenda personale e una tematica collettiva e universale ha suscitato il mio interesse.
A che punto siamo con la punizione dei responsabili del genocidio di Srebrenica?
Drezen è stato riconosciuto colpevole con una serie di attenuanti in quanto il tribunale ha ritenuto che chi aveva ucciso decine di persone non potesse comunque essere dichiarato innocente. Lo stesso Drazen è stato poi testimone d’accusa di vari processi a carico dei mandanti dell’eccidio, come Milosevic e i responsabili della Repubblica serba della Bosnia Erzegovina. C’è un bellissimo libro sull’argomento, intitolato They would never hurt a fly che racconta la convivenza, tutto sommato serena, dei responsabili delle diverse nazioni reclusi all’Aja. Si tratta di una serie di capi comunisti divenuti dalla mattina alla sera nazionalisti, adattandosi prontamente alle nuove circostanze. Nelle condizioni particolari della loro reclusione, dovute anche al tipo di persone recluse, in Olanda hanno ritrovato i punti di contatto che li avevano uniti per anni.
https://slavenkadrakulic.com/bibliography/they-would-never-hurt-a-fly/
Ci sono comunque state numerose condanne fra i responsabili serbi del genocidio. Si è trattato di sentenze importanti che hanno visto l’affermazione del diritto internazionale che oggi nell’era Trump viene costantemente calpestato al punto che Israele può impunemente continuare a bombardare stati sovrani. All’epoca in qualche modo il diritto internazionale è riuscito, sia pure dopo molti anni e con molte difficoltà e limiti, ad affermarsi.
Nel complesso però la reazione al genocidio di Srebrenica anche a distanza di anni non sembra adeguata alla gravità di questo crimine. Questo sembra in qualche modo favorire una sorta di normalizzazione del genocidio che gli eventi di Gaza apparentemente confermano.
Bisogna tener conto anche che a Srebrenica fu colpita una comunità musulmana nel cuore dell’Europa, dunque un gruppo religioso non particolarmente ben voluto nel contesto europeo. Anche in Siria dopo la caduta di Assad sono state scoperte fosse comuni di dimensioni inimmaginabili. Pensando o poi anche quello che sta succedendo in Sudan e ovviamente a Gaza si direbbe proprio che non stiamo imparando nulla dalla storia.
Sembra quasi imporsi l’idea, a cui forse la propaganda israeliana ha contribuito, che si possa parlare di genocidio solo in presenza dell’eccidio di milioni di persone: in realtà il genocidio può avvenire con l’uccisione di un numero relativamente limitato di persone e il tentativo di sradicare in tutto o in parte una poplazione. delle condizioni di vita di un gruppo umano.
Esiste una precisa definizione di genocidio (“Metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale, religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e l’annullamento dei valori e dei documenti culturali”), elaborata dall’avvocato polacco Raphael Lemkin e fatta propria dall’Onu, a partire dal genocidio degli armeni e sulla base della propria tragica esperienza della persecuzione antiebraica che colpì duramente la sua stessa famiglia durante l’occupazione nazista della Polonia. Viviamo in un’epoca dove non ci stupiamo più dell’impensabile.
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