Storia di Amina

In oltre 40 anni di attività professionale come infermiere, 35 dei quali in ambito psichiatrico, il contatto con il dolore, la sofferenza, le tragedie personali e familiari delle molte persone con cui sono venuto a contatto e di cui ho potuto prendermi cura, hanno costituito un notevole bagaglio di crescita, non solo professionale, ma anche personale. Alcune vicende mi hanno colpito in maniera particolare, si sono scolpite dentro la mia anima, sono un peso che ho bisogno di condividere, ma anche l’obbligo morale di darne testimonianza in tempi nei quali indifferenza e cinismo nei confronti di chi proviene da realtà diverse e distanti dalle nostre sembrano essere dominanti. Per questo ho deciso di raccontare la storia di Amina. 

Quando viene ricoverata nel reparto psichiatrico, ha 18 anni compiuti da poco, è in preda a uno stato di forte agitazione, delira, dice di vedere la Madonna, rifiuta il cibo e non dorme da giorni. L’accompagna una suora del convento al quale è stata affidata dal giudice, in attesa del processo dove deve comparire come testimone. Nei giorni successivi, quando i farmaci riescono a ristabilire un buon compenso psichico, insieme alla suora, riusciamo a ricostruire con la paziente la dolorosa vicenda che l’ha condotta fino a noi. 

Amina è una ragazza nigeriana che viveva fino a tre anni prima con la madre, cristiana, e altre due sorelle. Il padre, musulmano, vive tuttora separato, ha molte altre mogli e un numero imprecisato di figli. Dopo aver frequentato il primo anno di scuola superiore, Amina venne convinta dal fratello Ochman, che non andava d’accordo con la madre e viveva truffando la gente, a proseguire gli studi in un college di Londra. Il fratello la mise in contatto con un certo Julius, che organizzò il viaggio, le procurò un passaporto falso per farla risultare maggiorenne, e la fece salire su un aereo diretto in Svizzera, dicendo che l’avrebbe raggiunta lì per poi proseguire insieme per Londra. In Svizzera (non sa dire dove) non trovò Julius, ma un tale che si presentò come suo amico e che l’accompagnò a casa sua. Qui incontrò Julius, che le disse che sarebbero partiti nella notte per l’Italia. Il mattino seguente erano a Torino; alla stazione di Porta Susa c’era ad attenderli una ragazza nigeriana che Julius chiamò Sarah. Insieme presero un autobus che li condusse davanti a un grande palazzo, entrarono in un androne scarsamente illuminato e salirono per le scale fino al terzo piano, dove Amina vide Sarah consegnare una grande quantità di denaro a Julius: «Ho sentito che parlavano di cinquemila euro, Julius protestava dicendo che ne mancavano altri cinquemila, ma lei disse che io ero troppo giovane, così ebbi la sensazione di essere io la merce di scambio, anche se speravo che non fosse così». Poi Julius se ne andò e Amina rimase sola con Sarah, la quale le disse che per riavere la sua libertà avrebbe dovuto consegnarle centomila euro, e che per raccogliere il denaro avrebbe dovuto prostituirsi. «Io non sapevo – ha raccontato Amina – cosa volesse dire, fino a quel momento avevo sempre creduto che prostituta volesse dire “donna molto truccata”; non immaginavo che volesse dire andare in strada ad attendere uomini che vogliono fare l’amore, per cui mi misi a ridere e dissi a Sarah che io non mi ero mai messa il rossetto. Quando mi spiegò il significato le dissi che io ero vergine e non ero mai stata con un uomo». Sarah le disse che l’avrebbe fatta incontrare con un ragazzo nigeriano che le avrebbe insegnato cosa fare, ma, al suo rifiuto, la madame concluse che avrebbe imparato il mestiere direttamente sulla strada. Da qui è un succedersi di violenze, da parte della madame, quando non le consegna abbastanza denaro, da parte dei clienti, che fingono di non accorgersi della sua giovane età, fino ai riti voodoo, con tanto di minaccia  che se avesse parlato con la polizia, o avesse tentato di fuggire, o se non  avesse consegnato il denaro, sarebbe morta. A ciò si aggiunge il dolore per essere stata venduta proprio dal fratello. A ogni controllo della polizia ad Amina veniva cambiata la postazione, con spostamenti fra le province del nord del Piemonte e della Lombardia, lungo le cui strade subì numerose violenze e rapine a opera di ragazzi italiani, albanesi e marocchini. Per guadagnare più soldi venne costretta a lavorare anche la domenica, anche quando le sue condizioni di salute, o il ciclo mestruale, non glielo avrebbero consentito. Quando rientrava a casa ma non era in grado di consegnare alla madame i trecento euro che pretendeva ogni giorno, per Amina erano botte: «La madame mi picchiava molto spesso. Mi faceva denudare e sdraiare sul divano, poi cominciava a picchiarmi con una frusta fatta di peli di animali, mi sbatteva la faccia contro il muro e mi picchiava al volto, vicino agli occhi; eppure, in quasi tre anni le ho consegnato oltre cinquantamila euro». Confessa di non aver mai avuto il coraggio di rivolgersi alla polizia nel timore dei riti voodoo, e perché Sarah le aveva detto che se si fosse rivolta alla polizia, questa l’avrebbe messa in prigione: «Non ho mai incontrato nessuno sulla strada che mi abbia prospettato l’idea di fuggire; solo qualche cliente, notata la mia giovane età, cercava  di incoraggiarmi ad andare alla polizia, ma intanto pretendeva la prestazione». Ma Amina non ha mai perso la sua fede e così, nella chiesa che ha continuato a frequentare nei rari momenti di libertà, fece la conoscenza con Elisabeth, una signora nigeriana sposata con un italiano, la quale iniziò a prendersi cura dei suoi problemi di salute e la mise in contatto con Laura, un’italiana che si offrì di accompagnarla in Questura per denunciare la sua aguzzina. Nel convento dove attualmente è ospitata si trova bene, è molto affezionata alle persone che si prendono cura di lei, ma a volte i ricordi tornano a invadere la sua anima per ferirla, straziarla; gli incubi prendono forma e l’angoscia invade ogni spazio del suo esile corpo di adolescente sul quale sono impresse cicatrici indelebili, un corpo “violentato”, “cicatrizzato”, che ha ormai perso il significato di rifugio protettivo ed è diventato il luogo di reificazione continua della propria sofferenza. 

Ho voluto raccontare questa storia (della quale ho modificato nomi e luoghi, al fine di rispettare la privacy della protagonista, mentre i fatti sono assolutamente fedeli alla realtà) per dare la mia testimonianza di fronte alla stigmatizzazione sempre più accesa nei confronti di chi è diverso per colore della pelle o origine etnica. Amina e le migliaia di altre ragazze costrette a prostituirsi sulla strada, per molti italiani sono migranti, clandestine, spesso sono oggetto di commenti razzisti e di volgare disumanità; il loro dolore non ci riguarda e poi, se qualcuna di loro viene ammazzata e abbandonata in un bosco come un sacchetto della spazzatura, a chi importa? Esse sono semplici oggetti, merce che si può comprare e gettare, prestazione in cambio di denaro: che c’è di male? Quelle giovani donne, spesso migranti forzate, hanno dovuto affrontare violenze, torture, maltrattamenti, o sono state, a loro volta, testimoni di violenze e torture. Quando si pensa alla prostituta, si tende a dare un giudizio morale su una persona che fa del proprio corpo un oggetto di piacere in cambio di denaro, dimenticando che spesso è una vittima di una costellazione di traumi multipli come percosse, segregazioni, separazioni, sevizie, morte. Anche la decisione di rivolgersi alla polizia è spesso un avvenimento traumatizzante, vissuto generalmente in condizioni d’insicurezza, precarietà e rischio. Alla sofferenza legata al distacco dal proprio contesto culturale (nostalgia e mancanza delle radici), si somma la rabbia per il “tradimento” delle aspettative da parte del Paese di arrivo (a causa dello sfruttamento a fini sessuali della donna). 

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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