Com’era prevedibile anche questa volta i cinque referendum abrogativi indetti in Italia per i giorni 8 e 9 giugno sono falliti in quanto solo una minoranza degli aventi diritto al voto ha partecipato alla consultazione.
Il referendum abrogativo è la forma più diffusa di consultazione referendaria esistente in Italia ed è stato istituito nel 1970 in attuazione dell’articolo 75 della Costituzione.
Un referendum abrogativo può essere indetto raccogliendo le firme di almeno 500.000 cittadini oppure su richiesta di almeno cinque consigli regionali; in tal modo è possibile consultare gli elettori per tentare di abrogare totalmente o parzialmente una legge, parte di essa, un decreto legge o un decreto legislativo.
La Corte costituzionale decide l’ammissibilità di un referendum abrogativo che per essere valido richiede la partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto al voto. Dei 77 referendum sottoposti al voto popolare quasi la metà è fallito in seguito al mancato raggiungimento di quest’ultimo requisito, previsto dai costituenti per evitare che un’esigua minoranza di elettori abrogasse una legge approvata da una larga maggioranza parlamentare o che venissero sottoposti a referendum misure legislative di scarso interesse generale. Da notare che la tendenza al mancato raggiungimento del cosiddetto quorum degli aventi diritto al voto sta diventando negli ultimi anni una costante delle consultazioni referendarie tanto che dal 2011 nessun referendum è risultato valido appunto per questo motivo.
Il crescente astensionismo non solo in Italia è perfettamente in linea con il trend di crescente disaffezione al voto che si registra ormai in tutte le consultazioni politiche tanto che ormai accade spesso che perfino Consigli comunali e regionali vengano eletti da una minoranza di elettori.
Tenendo conto di questa situazione chi si oppone al successo di un referendum abrogativo trova più comodo puntare sul mancato raggiungimento del quorum piuttosto che invitare gli elettori a votare no. Questo impoverisce il dibattito democratico perché chi punta sull’astensionismo non ha più nessun interesse a entrare nel merito delle questioni ma piuttosto a stendere su di esse il velo del silenzio.
Il gioco risulta ancora più facile quando, come nella recente consultazione, chi ha interesse a mantenere la legislazione in vigore ha un ampio controllo dei mezzi di informazione che saranno a loro volta orientati, per tutto il periodo che precede il voto, a partecipare attivamente a questa sorta di congiura del silenzio.
Un’iniezione di democrazia diretta come quella di referendum con una sufficiente coinvolgimento potrebbe, indipendentemente dal suo esito, rianimare una democrazia sfiancata dalla sfiducia degli elettori nelle elezioni dei propri rappresentanti a livello locale e nazionale, anche a causa di sistemi elettorali congegnati in modo da garantire più le oligarchie partitiche che la volontà dei singoli cittadini. I referendum sono malvisti dalla classe politica anche perché il voto referendario non permette le alchimie possibili invece negli altri tipi di elezioni.
Occorre perciò una spinta dal basso per rilanciare l’istituto referendario visto che la classe politica nel suo complesso non ha mai dimostrato un grande interesse per un tipo di consultazione meno controllabile di altre. Non è un caso che ci siano voluti venticinque anni per approvare la legge istitutiva dei referendum abrogativi previsti dalla Costituzione. Occorre poi aggiungere che se oggi sono le forze del governo di destra a sollecitare l’astensionismo, in passato esso è stato incoraggiato anche dalle altre forze politiche. Un’altra forma di boicottaggio da parte delle forze politiche in generale si è realizzato con il mancato rispetto della volontà popolare come è avvenuto per il referendum che chiedeva a grande maggioranza l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, poi reintrodotti surrettiziamente o l’effettivo mantenimento in mano pubblica della gestione dell’acqua che governi e istituzioni locali tendono ad aggirare in vario modo.
Dunque, o il referendum si rinnova o è destinato inevitabilmente ad appassire fino ad essere considerato un costo inutile. Innanzitutto, bisognerebbe se non abolire, almeno abbassare fortemente il quorum richiesto per considerare valida una consultazione referendaria.
Anche il ruolo della Corte costituzionale andrebbe meglio chiarito in quanto il potere di ammissibilità di un quesito referendario non è regolato in modo preciso e si presta a decisioni discutibili. Sarebbe inoltre opportuno che la stessa Corte dichiarasse ammissibile o meno un referendum prima e non dopo la faticosa e costosa raccolta delle firme.
Auspicabile inoltre l’introduzione del referendum propositivo, attraverso il quale i cittadini potrebbero proporre direttamente l’approvazione di nuove norme legislative su questioni di interesse generale su cui il parlamento tarda a legiferare.
Le forze dell’attuale opposizione sono chiamate, emendando errori e reticenze del passato, a fare di questa battaglia democratica un punto centrale della costruzione di un’alternativa.
Non c’è invece da aspettarsi una grande sensibilità su questo tema da parte delle destre al governo visto che, come prima reazione all’ennesimo fallimento dei referendum, autorevoli esponenti dell’attuale maggioranza non hanno saputo fare di meglio che chiedere l’innalzamento a un milione del numero di firme necessario per richiedere il pronunciamento degli elettori.
Le stesse forze politiche di maggioranza contrabbandano poi come democrazia diretta un’abborracciata riforma del sistema politico che dovrebbe attribuire poteri assai ampi a un(a) futuro(a) presidente del consiglio eletto(a) direttamente dal popolo.
Più che di democrazia diretta bisognerebbe parlare in questo caso di democrazia plebiscitaria con una forte personalizzazione del discorso politico e un’ulteriore diminuzione del potere di controllo degli elettori una volta operata la scelta elettorale.