Anni ’90, dall’Albania all’Italia: la storia di Gentian, esempio di integrazione

Nel 1996 avevo tredici anni ed era l’anno in cui avrei iniziato le scuole superiori dopo l’estate. A giugno mi aspettava infatti l’esame di licenza media, il primo di molti esami scolastici e universitari che avrei sostenuto negli anni a venire e per molti dei quali non conservo alcuna memoria. Ma quello, l’esame di terza media, e i mesi che lo precedettero, li ricordo bene. Settimane di agitazione perché mai fino a quel momento mi ero trovata a dover parlare di fronte a una commissione giudicante (seppur costituita da docenti che ben conoscevo). Mentre io vivevo giornate pieni di preoccupazioni al pensiero di quell’esame (banale, ora posso certamente dirlo), il mondo continuava a fare quello che fa da sempre: tra guerre e ricerca di pace. E tra i conflitti a me più vicini, geograficamente, c’era quello albanese.  

Della guerra civile che si stava consumando dai primi anni ’90 per le strade di quel Paese non ricordo molto, se non qualche immagine confusa di soldati italiani in missione in Albania per conto dell’ONU trasmesse dal telegiornale della sera. Ricordo meglio, invece, l’improvvisa presenza attorno a me di uomini, poi donne, bambini e anziani, le cui parole mi era incomprensibili. Coglievo comunque, e pur senza parlare la stessa lingua, lo spaesamento negli occhi di molti di loro, seduti su orribili e scomode panchine di cemento, che erano dispose ai lati della piazza principale del luogo dove vivevo. Quelle persone parevano in attesa. Di che cosa, l’ho capito poche settimane fa, quando ho incontrato Gentian Ashiku.

Gentian fa il pasticcere ed è il titolare e gestore, con la moglie, Odeta, di una gelateria pasticceria a Pontenure, alle porte di Piacenza. Si chiama Mil Sabores, e i coniugi l’hanno aperta nel 2010 (se siete in zona, vale la pena di fare uno stop lì). Oggi il negozio – che vanta il titolo di ristoratore sostenibile a 360° – mantiene i “due coni” nella prestigiosa Guida Gelaterie d’Italia 2022 del Gambero Rosso e nel 2020 Gentian si è aggiudicato il premio per il Miglior Panettone dell’Emilia Romagna nel Concorso Nazionale.

Qualcuno, tra chi è arrivato dall’Albania in Italia negli anni Novanta per sfuggire alla guerra civile e alla povertà, è stato inghiottito dalla parte più brutta del Bel Paese. In tanti sono riusciti a rimanere a galla. Altri hanno preso il largo e raggiunto traguardi importanti. Tra loro, Gentian. Ecco perché raccontiamo la sua storia, proprio mentre le Nazioni Unite si preparano a celebrare la “Settimana d’azione contro il razzismo” e in Italia si è appena consumata la tragedia di vite umane sulla spiaggia di Cruto.

Nell’agosto del 1991, il papà di Gentian fu uno dei 20mila albanesi arrivati al porto di Bari sulla nave mercantile Vlora che nel porto di Durazzo era stata assalita da una folla di migliaia di persone che avevano costretto il comandante a salpare per l’Italia e attraccare dunque in Puglia il giorno seguente.

“Era in corso la guerra civile nel mio paese” – ricorda Gentian, che incontro nella sua gelateria pasticceria, un pomeriggio di febbraio, durante uno dei miei viaggi-vacanza in Italia – “mio papà era partito con il progetto di tornare in Albania e di inviare, nel frattempo, risparmi ai cari lasciati indietro. Ricordo che mio padre tornava raramente, una volta all’anno, e ogni volta arrivava con qualche dono, un capo di vestiario, del cioccolato. In un’occasione mi portò persino una bicicletta, ai miei occhi, bellissima.”

Nella seconda metà degli anni Novanta la crisi economica colpì ancora più duramente l’Albania, riducendo alla disperazione migliaia di persone; così per il padre di Gentian, e per tanti dei suoi connazionali, la prospettiva cambiò: non bastava più inviare soldi ai familiari in Albania. Bisognava far arrivare moglie e figli in Italia. Scappavano tutti, quelli che potevano e ci riuscivano. “Lo facemmo anche noi” – racconta Gentian, che giunse a Piacenza, con la madre, la sorella e i fratelli nel 1996.

A differenza di quanto vissuto da suo papà, il nuovo esodo di ricongiungimenti familiari avvenne in modo assai poco eclatante e fu anche malamente gestito. Insomma, si accoglievano (sempre meno volentieri) intere famiglie dall’Albania, ma non c’erano politiche adeguate e pensate per facilitare l’integrazione di queste persone.

Gentian ricorda bene come il papà gli aveva descritto l’accoglienza riservata a coloro che erano scesi dalla Vlora. La mattina dopo lo sbarco c’era stata grandissima sorpresa: si era mossa la macchina  della solidarietà e la gente aveva aperto le sue case, aveva accolto la gente albanese ad esempio preparando loro mangiare e offrendo loro la possibilità di lavarsi, insomma, facendoli sentire esseri umani. 

Nella seconda metà degli anni Novanta, anche se l’economia in Italia era buona, era invece molto cresciuta la diffidenza verso gli stranieri e la generosità si era ridotta. Dai media ai vicini di casa: l’Italia che accoglieva il flusso crescente di albanesi si aspettava che questa gente si integrasse. “Il problema è che nessuno ci spiegava come fare, banalmente come e dove cercare un lavoro, quanto fosse il salario minimo indispensabile per vivere”, sottolinea Gentian. Senza lavoro, ai margini della società, la comunità degli albanesi divenne presto oggetto di stereotipi molto negativi e discriminazioni.

Anche per lui, i primi anni in Italia non sono stati facili, tra lavori precari, il desiderio di comprendere la realtà italiana, cogliendone le opportunità, e la frustrazione di essere lasciato senza una guida che lo aiutasse a inserirsi nel nuovo territorio .  Mi racconta: “Presto ho dovuto fare i conti con una certa idealizzazione dell’Italia, un’idea di questo Paese che la televisione (in Albania guardavamo i canali italiani) ci aveva trasmesso e che era ben lontana dalla realtà, una realtà che non conoscevamo, per la quale eravamo largamente impreparati e della quale non era così evidente riuscire a divenirne parte.” 

Dopo alcuni lavori come praticante, passando da una macelleria a una carrozzeria, con poche soddisfazioni di crescita personale e professionale, a Gentian si presenta una di quelle occasioni che, in qualche modo, cambiano la vita. Inizia a lavorare come aiuto-pizzaiolo in un locale sulle colline attorno a Piacenza. “Percorrevo in auto diversi chilometri ogni giorno per raggiungere il ristorante dove ero occupato; la paga era inferiore a quella che avrei potuto prendere se avessi continuato a fare l’apprendista carrozziere. Lavoravo moltissimo, ma ciò non mi costava. Era una bella atmosfera, quello che si respirava in quel locale. Il datore di lavoro e la sua famiglia mi presero molto in simpatia e questo fu per me fondamentale per crescere professionalmente e realizzarmi,” Qualche tempo dopo a Gentian fu offerto di diventare pizzaiolo in un altro ristorante nelle valli piacentine, fino a quando dagli impasti per la pizza Gentian passò a quelli per i dolci, presso la pasticceria del padre di quella che sarebbe diventa sua moglie e con la quale ha avviato la gelateria Mil Sabores.

Grazie alla sua determinazione a conoscere le potenzialità del territorio piacentino, e grazie al suo impegno e alla sua dedizione professionale (“arrivano a lavorare anche 12 ore al giorno”), Gentian è riuscito a costruirsi un presente in Italia. Oggi ha due figli ormai grandi, che portano nomi italiani, parlano l’albanese e chiamano “casa” il posto in cui vivono. Ogni tanto lo aiutano in negozio, ma – dice Gentian – “non li forzerò a seguire la mia passione nella pasticceria.”

Claudio, un dei figli di Gentian

Gentian rimane abbastanza allergico alle classificazioni (italiani e stranieri), alle divisioni (noi e loro) e alle appartenenze nazionali. Ai luoghi in cui è nato non lo lega quasi più nulla, a parte alcuni affetti familiari che ancora sono al di là dell’Adriatico. Al tempo stesso non ama confrontare Italia e Albania. Mi dice: “A casa abbiamo sempre evitato riferimenti alla nazionalità, che sono troppo frequentemente divisivi e portano a stereotipi che diventano fonte di odio e razzismo. I miei figli, d’altra parte, si sentivano italiani già prima di prendere la cittadinanza di questo Paese. Un documento ufficiale non ha cambiato nulla. Il senso di appartenenza a un posto, a questo posto, è il frutto di un processo continuo fatto di scambi e relazioni di amicizie e di lavoro, costruite con cura, attraverso un percorso di conoscenza, apertura e stima reciproca, impegno e onestà. Questa è l’integrazione – e prescinde da cosa c’è scritto sul passaporto”. Con queste parole, che sottoscrivo, lascio che Gentian torni al suo lavoro, e quando esco dal suo negozio, mi ritrovo in mano un sacchetto di biscotti che il pasticcere mi lascia in dono.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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