Essere una “minoranza” è davvero solo una questione di numeri? Così titolava il suo articolo Wesley Morris sulle pagine del New York Times Magazine il 23 gennaio 2019.
Quando classifichiamo persone in gruppi ci troviamo di fronte a un’evidente difficoltà, spiega Morris, ovvero il fatto che i gruppi non sono statici ma si espandono e si contraggono. Si modificano. E lo fanno, spesso, perchè si evolve la concezione che un gruppo ha di se stesso – così oggi negli Stati Uniti i nativi americani accettano anche “indigeno”, e L.G.B.T.Q. spesso prende un “I.A.” alla fine.
Ma l’evoluzione di un gruppo è anche legata al modo in cui la società decide di raggruppare le persone. E così – scrive Morris – negli Stati Uniti, o sei etero e bianco, o sei una minoranza. Anche se, a conti fatti, non sei in una minoranza.
In quanto minoranza – per quale che sia caratteristica fisica, sociale o culturale che, sostanzialmente, non ti fa rientrare tra “loro” – sei considerato come parte di un popolo a parte. I gruppi di minoranza sono (stati) a lungo tenuti in minore considerazione, esclusi da certe opportunità e dalla partecipazione alla vita nazionale. La considerazione di Morris è quindi questa: paradossalmente nonché spesso, tu e “la tua gente” potete essere “a parte” ed emarginati anche se costituite il 60 per cento della popolazione!
La parola minoranza quindi non ha sempre a che fare con un fatto numerico. È una questione di dominio esistenziale. E in una democrazia, dov’è a decidere è la maggioranza, quest’ultima arriva persino a designare che tipo di minoranze categorizzare. Scrive Morris: “Fin dalla fondazione di questa nazione, il “bianco/caucasico/europeo” è stata la sua categoria razziale più importante. Arrivarci ha richiesto il massacro di molti di quegli indigeni, ma chi sta contando? Beh, i bianchi – la conservazione di quella maggioranza ha comportato tutto, dal genocidio all’invenzione di cose come le leggi contro la discriminazione“.
Insomma, per riprendere la metafora presentata nell’articolo del New York Times Magazine essere “minoranza” è ricoprire il ruolo dello status di passeggero in una macchina che qualcun altro sta sempre – già sempre – guidando, anche se diverse minoranze viaggiano sul sedile posteriore, anche se la macchina diventa “a maggioranza minoranza”. Già, “a maggioranza minoranza”, fuori di metafora, lo sono ad esempio intere città o distretti americani come altrove dove “i bianchi” costituiscono meno del 50% della popolazione.
Non è impossibile, conclude Morris, che una piccola minoranza arrivi al posto di guida. Basti pensare alle minoranze etniche che dominano intere nazioni di tutto il mondo. E senza scomodare l’etnia, si può ricordare che il sistema elettorale americano ha permesso, nella storia, che un partito che ha ricevuto meno voti abbia avuto il controllo della presidenza, del Senato e di diverse legislature statali…
C’è poi un altro problema che il sociologo Louis Wirth nel 1946 sottolineava con preoccupazione: “Certi gruppi”, scriveva, “tendono a sviluppare una concezione di se stessi come inferiori, come alieni e come gruppi perseguitati, il che influenza significativamente il loro ruolo nell’impresa collettiva della nazione”.
Penso alla lotta contro il cambiamento climatico e a quella per i diritti per tutti. Chi ha oggi, in Europa, una concezione di se stesso come “in pericolo” e chi lede il progetto di coesione nazionale? Sono le minoranze oppure le maggioranze, sempre più vicine al diventare “a maggioranza minoranza”?