Colonialismo, questo sconosciuto in Occidente

Due anni fa in Belgio si era messa al lavoro la Commissione speciale sul passato coloniale del paese nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), in Burundi e nel Ruanda. Come scusarsi per le sofferenze umane inflitte dai coloni a oltre 1 milione di persone a partire dal XVII secolo? Alla fine è stato scelto di esprimere rammarico per per le atrocità commesse. Niente scuse, dunque, fortemente osteggiate dai Liberali e Democratici Fiamminghi Aperti (Open VLD) e dal Movimento Riformatore (Mouvement Réformateur MR) francofono – partiti che così hanno fatto propria la narrativa espressa dall’attuale re del Belgio in una lettera al presidente congolese in occasione del 60° anniversario dell’indipendenza del Paese. Era il 2020: “La nostra storia è fatta di conquiste comuni ma anche di episodi dolorosi”, si legge nella lettera. “All’epoca dello Stato indipendente del Congo, furono commessi atti di violenza e crudeltà che ancora pesano sulla nostra memoria collettiva”. E poi, ”Il periodo coloniale che è seguito ha comportato anche sofferenze e umiliazioni. Vorrei esprimere il mio più profondo rammarico per quelle ferite del passato, il cui dolore è oggi ravvivato dalla discriminazione ancora troppo presente nelle nostre società”.

Altri monarchi e autorità politiche sono stati ugualmente cauti sulla questione del passato coloniale. Proprio nel gennaio dello scorso anno Emmanuel Macron aveva ufficializzato che la Francia non si sarebbe scusata per la colonizzazione dell’Algeria, sostenendo invece la commemorazione della storia violenta dell’occupazione del Paese nordafricano. Nemmeno la molto amata Regina Elisabetta II, scomparsa pochi mesi fa, ha mai parlato apertamente dei crimini perpetuati dall’Impero britannico nei territori colonizzati – anche se nel 2013 l’allora ministro degli Esteri William Hague aveva chiesto formalmente scusa per i crimini del colonialismo perpetuati dal suo paese e offerto un risarcimento finanziario alle vittime coloniali (che è poi proprio ciò che alcuni partiti in Belgio non sono pronti a fare). In Italia, la sordida storia del Paese in Africa non viene insegnata nelle scuole e è stata raramente discussa dal mondo politico.

Spesso, la denuncia solenne e esplicita del passato coloniale viene lasciata al mondo della cultura, ad esempio nella forma di esposizioni e mostre, che mettono in luce le ingiustizie del passato. Spesso è spettato al ceto intellettuale e agli storiografi il compito di elaborare il tramonto degli imperi coloniali. Altre volte, si è proceduti con la restituzione delle opere d’arte saccheggiate; sono stati prodotti – in alcuni paesi – film e romanzi per capire gli anni coloniali.

Più raramente qualcuno ha chiesto che siano fatte indagini sul colonialismo del proprio paese.

Così, siamo rimaniamo privi di conoscenza (tanto per fare un esempio, i programmi scolastici dei paesi colonialisti sono poco di aiuto per colmare questa ignoranza), e fatichiamo a comprendere come quel passato coloniale continui a influenzare il modo in cui viviamo le nostre vite in Occidente.

Un esempio? In un’intervista rilasciata a Lavinia Sommaruga, Sami Tchak, scrittore togolese che nei suoi libri scrive del Continente africano e i Paesi dell’America Latina, aveva esemplificato che molto bene come il passato coloniale influenza le relazioni tra i paesi anche nel campo della letteratura. Dichiarava Sami Tchak: “Le letterature africane, come le conosciamo ora, sono sviluppate piuttosto con le lingue europee, la lingua del colonizzatore. Esistono naturalmente scritti in lingua africana, ma sono meno conosciuti a livello internazionale e anche nazionale. Il problema che potrebbe sorgere è che le nostre letterature rimangano un po’ troppo orientate ‘verso l’estero’ e non sufficientemente radicate a livello locale.” Ci si può chiedere se questo sia giusto. E sostenibile.

D’altra parte, sostenibilità e giustizia mondiali non potranno che rimanere un miraggio, se prima non si avvia una nuova e chiara narrativa, che si avvicini alla responsabilità e alla riparazione. Come aveva dichiarato lo stesso Sami Tchak, e senza troppi giri di parole, aiutare i poveri non basta per cambiare le relazioni tra i paesi, tra chi insomma è stato colonizzatore e ora offre il proprio aiuto e chi è stato oggetto di colonizzazione e ora ricevente degli aiuti.

L’ha ricordato recentemente anche Kristina Lanz, responsabile della “Politica di sviluppo” di Alliance Sud in Svizzera, mettendo in luce come nella cooperazione allo sviluppo le disuguaglianze in termini di potere continuino a essere un grosso problema anche perché manca una seria riflessione sulla decolonizzazione. “Sono stati dimenticati la schiavitù, l’imperialismo e il colonialismo” – scrive Lanz – “così come le ingiuste relazioni commerciali ed economiche globali che continuano ancora oggi, senza le quali la prosperità occidentale nella sua forma attuale non esisterebbe.” Mancando questa critica del proprio passato, la cooperazione allo sviluppo odierna ricorre ad attività di comunicazione e raccolta fondi che a ben vedere consolidano un’immagine obsoleta dello sviluppo, dove gli stereotipi sulla povertà, i “salvatori bianchi” e l’assenza di contestualizzazione sono ben presenti.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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