Speedy, in movimento da seduto

Era in macchina con la mamma e la zia, Speedy, quando un incidente gli ha cambiato la vita per sempre. Nel 2020 un camion ha investito l’auto sulla quale il giovane viaggiava con le due donne, morte sul colpo. Per Speedy il destino ha riservato invece una paralisi degli arti inferiori. Amante di basket, pieno di vita, a soli 18 anni il giovane si è ritrovato a doversi confrontare con due lutti importanti e sulla sedia a rotelle. La sua storia è stata in parte raccontata dalla serie americana “Queer Eyes” su Netflix.

Nell’episodio in questione i protagonisti (Antoni Porowski, Tan France, Karamo Brown, Bobby Berk, e Jonathan Van Ness) incontrano Speedy dopo aver visto alcuni sui video su TikTok nei quali, in pochi minuti, il giovane si riprende in diversi momenti della sua quotidianità: sguardo timido, occhi non sempre fissi in camera, Speedy è, nei video, per lo più in movimento: “gira” nel suo appartamento, sale in auto, si infila le scarpe per uscire, fa il bucato gettando calzini e pantaloni nella lavatrice, mescola un sugo al curry (credo!), si fa la barba, si lava il viso. Azioni come quelle che in tanti compiono, ma che lui svolge muovendosi sulla sedia a rotelle. Già, movendosi. E in autonomia.

Ma lo è davvero? Non mi riferisco solo alle difficoltà legate agli spostamenti nello spazio o all’accesso a servizi.

Penso, piuttosto, al concetto di libertà di movimento applicato a persone con paralisi agli arti inferiori e che si veicola nel nostro linguaggio quotidiano.

Insomma, parlare di una persona paralizzata utilizzando verbi di movimento: girare, salire, andare, avvicinarsi, alzare, dovrebbe poter essere normale… E se così non è, la questione sta in una (nemmeno troppo nascosta) tensione linguistica che ci porta a pensare, inconsciamente, e a chiamare, di riflesso, le persone che non possono camminare come individui invalidi o diversamente abili o, ancora, portatori di handicap. Quindi diversi. Quindi incapaci di fare quello che facciamo noi.

Se solo si dicesse “conosco un ragazzo che si muove su sedia a rotelle” al posto di “conosco un ragazzo su sedia a rotelle”, la questione cambierebbe. Radicalmente.

Il libro di Jacopo Melio “È facile parlare di disabilità (se sai davvero come farlo)” contiene un’immagine segnaletica posta vicino a uno spazio riservato al parcheggio di auto per persone con una disabilità: si legge “Vuoi il mio posto? Prenditi anche la mia invalidità”. L’essere su una sedia a rotelle, in questo caso, viene presentato come una sciagura da accollarsi. È questa la narrativa che va cambiata!

Pensando a Speedy che “si muove”, non si può non riflettere sul fatto che il problema di fondo è della nostra società la quale non riesce ad assorbire, e includere, le caratteristiche di alcuni individui. Insomma, anche a livello del nostro linguaggio c’è bisogno di fare spazio a una narrazione che ci liberi dall’immagine di immobilismo associato a chi usa la sedia a rotelle e che anteponga il concetto di persona a quello di disabilità. Un linguaggio che non ci faccia dimenticare la tridimensionalità del soggetto, che non lo appiattisca – fissandolo – a una sedia.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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