Lo stato d’animo che prevale di fronte alla guerra in Ucraina, come di fronte a ogni conflitto armato, è un senso di smarrimento e di impotenza per la sensazione di non riuscire né individualmente né collettivamente a incidere minimamente sul corso degli eventi.
Questa sensazione, che le crisi internazionali acuiscono, è del resto una delle cause di disaffezione alla politica e alla stessa partecipazione elettorale che ormai colpisce tutte le democrazie.
L’opposizione alla guerra si esercita in modo molto più proficuo prima che esploda un conflitto armato ma non può rinunciare a esercitare un proprio ruolo anche quando ormai la parola è passata alle armi.
La guerra in Ucraina coinvolge in modo diretto noi europei, colpendoci nel nostro bisogno di sicurezza e nei nostri stessi interessi materiali e rendendo impossibile innestare quei meccanismi di rimozione che mettiamo in atto con tanta facilità verso conflitti più lontani, almeno apparentemente. Molti osservatori azzardano un confronto fra la diffusione del movimento pacifista del 2003 , culminata nelle imponenti manifestazioni del 15 febbraio di quell’anno, e le difficoltà dell’attuale mobilitazione.
Allora si avevano ben chiare le responsabilità di uno schieramento occidentale guidato dagli Usa che aggrediva, in modo proditorio e in violazione del diritto internazionale, uno Stato sovrano, per quanto sottomesso alla feroce dittatura di Saddam Hussein.
Con la stessa chiarezza chi oggi auspica una composizione pacifica del conflitto non può sfuggire prima di tutto alla chiara denuncia del fatto che la guerra è stata scatenata dalla Russia di Putin, che in questo modo ha azzerato qualsiasi propria presunta ragione geopolitica precedente. La conduzione criminale della guerra da parte russa aggiunge un ulteriore tassello a questo quadro di responsabilità. Chi invade proditoriamente un altro stato sovrano si rende responsabile di una grave violazione del diritto internazionale, qualunque siano le ragioni (ma in questo caso sarebbe più adeguato parlare di pretesti) addotte per giustificare questo comportamento. Non si possono, a buon diritto, contestare le ripetute violazioni del diritto internazionale da parte degli Usa e dei suoi alleati e poi non applicare lo stesso metro di giudizio alla Russia di Putin nella situazione odierna senza incorrere in un inaccettabile doppiopesismo che toglie qualsiasi credibilità a ogni istanza di pace.
Rimanendo al confronto col movimento contro la guerra del 2003, incide dunque sulla scarsa mobilitazione attuale sia la memoria storica del fallimento di quella imponente mobilitazione sia la difficoltà di contribuire positivamente alla soluzione di un conflitto le cui responsabilità principali non ricadono sul campo occidentale. Questo riconoscimento di responsabilità della Russia non è formale e legittima una mobilitazione non violenta, volta a contribuire alla ricerca di qualsiasi spiraglio di pace, anche contrastando le tendenze più oltranziste presenti nel campo occidentale. La stessa richiesta di abolire o almeno limitare la fornitura di armi all’Ucraina rischia di provocare il disarmo incondizionato del Paese e di lasciare campo libero all’aggressore se non accompagnata da adeguate e concrete contropartite da parte russa, di cui al momento non si intravede purtroppo alcun segnale.
Preferisco di gran lunga far riferimento al concetto di azione non violenta piuttosto che a quello di pacifismo perché il primo termine implica il riconoscimento dell’esistenza di un conflitto da risolvere senza ricorrere, nei limiti del possibile, alla violenza ma senza, d’altra parte, misconoscere i torti e le ragioni che ne sono alla base. Gandhi stesso si proponeva con la sua azione non violenta di ottenere precisi obiettivi di giustizia senza mai cedere alla prepotenza, arrivando a delineare, almeno in linea teorica, la possibilità di ricorrere alla violenza in casi estremi per riparare all’ingiustizia, qualora tutti i mezzi non violenti si fossero rivelati inefficaci. Mi pare che invece il termine pacifismo, almeno nelle modalità con cui coniugato nell’attuale frangente storico, implichi semplicemente una sospensione delle manifestazioni violente di un conflitto senza comporne in modo equo e duraturo le cause profonde. Una parte del pacifismo odierno, spesso in buona fede, finisce per approdare a una sorta di neutralismo che mette sullo stesso piano aggredito e aggressore. La resistenza del popolo ucraino, per certi versi sorprendente, dimostra in modo inequivocabile che il problema ucraino non può essere ridotto a un’astratta questione geopolitica sulla pelle del desiderio di libertà e di indipendenza di un intero popolo.
Nel momento in cui l’escalation bellica in Ucraina sembra inarrestabile bisogna prendere atto che la soluzione del conflitto è purtroppo nelle mani delle grandi potenze; l’azione non violenta può avere uno spazio di azione limitato ma importante contribuendo a perseguire l’obiettivo di una pace giusta, anche attraverso un compromesso che sancisca tuttavia il diritto imprescindibile dell’Ucraina alla difesa del proprio diritto e all’indipendenza nazionale, all’autodeterminazione e al massimo possibile di integrità territoriale. Si tratta di operare per favorire prima di tutto un clima di fiducia minima che possa togliere al più presto la parola alle armi. Una volta cessato il conflitto si potrà esplicare con maggiore efficacia quell’opera complessa e di lunga durata volta a rappacificare realmente due popoli in cui soprattutto l’aggressione russa e la relativa propaganda hanno instillato un odio e una diffidenza reciproca difficile da estirpare. La stessa popolazione russa è vittima di questa azione criminale e non va perciò considerata, in quanto tale, responsabile del conflitto; l’opposizione russa alla guerra deve anzi essere appoggiata e incoraggiata in tutti i modi possibili.
Per ridare forza e credibilità a un’efficace azione non violenta bisogna insomma partire come sempre dalle ragioni degli oppressi e dalla ricerca di metodi non violenti per farle valere in modo duraturo.
In caso contrario non si rimuovono le cause profonde dei conflitti con conseguenze da cui nessuno sarà immune.
.