La notizia mi è arrivata prima da un’amica che abita a Londra: un poster, pubblicato (e subito ritirato) dal governo britannico sui social media, raffigura situazioni da lockdown; le donne (mamme e mogli) svolgono lavori domestici con tanto di prole al seguito, mentre il solo uomo presente nel poster siede comodamente su un divano (forse mentre supervisiona la compagna e il figlio nella didattica a distanza?). Il tutto accompagnato dallo slogan “Rimani a casa. Salva le vite”.

It is unfair, dice Claire: perché mai si assume ANCORA e a priori che sia la donna a occuparsi dello spazio domestico, mentre i grandi problemi del mondo e della sicurezza generale li risolvono gli uomini?
Per fortuna, questa visione arcaica delle divisioni di ruoli tra uomini e donne è sempre più frequentemente messa in crisi dal crescente numero di leader femmine – e alcune di queste, sono anche mamme coraggiose che crescono i propri figli giocando con loro a Lego Batman….
Solo che, a conti fatti, la strada da fare è ancora lunga. Non solo a fatti ma anche a parole.
I fatti. Da una recente indagine su più di 20.000 adulti condotta dal Reykjavík Index, che valuta gli atteggiamenti verso la leadership femminile nei Paesi del G7 così come in India, Kenya e Nigeria, sono emersi risultati sorprendenti e scoraggianti. Uno tra tutti: solo il 41% delle persone in Germania ha detto di sentirsi molto a suo agio con una donna a capo del governo, nonostante la lunga cancelleria di Angela Merkel.
Dallo stesso studio emerge la difficoltà di uscire dagli schemi del mondo contemporaneo (sessista) dove, generalmente, i leader maschili continuano ad avere più autorità e – soprattuto – ad essere investiti di maggiore autorità nella percezione comune, cioè non solo da parte degli uomini ma anche delle donne che, pur biasimando le discriminazioni di genere, continuano ad assecondare quel sistema esistente legato allo stereotipo secondo il quale le donne non sono decisive e autorevoli e le loro voci non sono così forti come quelle degli uomini.
Le parole. Vi è mai capitato di leggere in queste settimane complimenti alle donne che si rivelano altrettanto brave e a volte migliori in alcune di quelle qualità maschili, come essere decisive e prendere decisioni difficili? Pur allungandosi la fila degli articoli che danno risalto alle donne e al loro contributo, nel campo politico, della ricerca scientifica o della finanza, non si smette di scivolare in una “genderizzazione” della leadership, resa affine a quelle caratteristiche che, secondo la nostra cultura, dipingono al meglio la sfera femminile: “competenza, intelligenza, curiosità” ma anche “modestia” e “umiltà, empatia e integrità”, come scrivono Tomas Chamorro-Premuzic e Avivah Wittenberg-Cox, il primo è Chief Talent Scientist di ManpowerGroup e il secondo il CEO di 20-first, una delle principali società di consulenza di genere al mondo.
In questo contesto stereotipato quale sarebbe una buona strategia per vincere i pregiudizi di genere?
L’impressione è che per reclutare più donne tra le file delle posizioni apicali, o dar loro risalto, si finisca con percorrere proprio quella stessa pista che, a rigor di logica, andrebbe forse abbandonata a favore di toni più neutri e inclusivi.
Vogliamo uscire da un contesto fortemente minato da stereotipi legati al modo in cui l’Occidente concepisce da secoli le donne (madri e mogli) e lo facciamo impugnando come arma nientemeno che gli stessi stereotipi. Diciamo alle ragazze di non temere la leadership e di considerarla come qualche cosa che anche loro possono svolgere, perché i leader di oggi devono essere empatici e riflessivi, proprio come le donne…
Oppure sexy…
Mi viene in mente lo spot della Comunità Europea concepito per incoraggiare le ragazze a intraprendere la carriera scientifica: su una passerella illuminata da riflettori con luci colorate, in abiti succinti e su tacchi vertiginosi sfilavano ragazze “scienziate”. Allo spettacolo assisteva un uomo davanti ad un microscopio. Se fosse interessato alla scienza o alle ragazze veniva lasciato all’immaginazione. Era il 2012…
Ma se l’intento è quello di sostenere le donne in posizioni di responsabilità, perché giocare proprio sul genere per perseguire lo scopo? Perché rendere ancora meno inclusivo ciò che, proprio a causa degli stereotipi, lo è già poco di per sé?
Non occorre forse dare spazio a una narrazione che sia inclusiva di tutti i contributi e di tutte le sfaccettature che il lavoro quotidiano delle donne (e degli uomini) può offrire, esaltando le sinergie e la complementarietà piuttosto che accentuando le differenze e le segregazioni?