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“Verso un futuro sostenibile, dialoghi su clima, migrazioni e sviluppo” Episodio 1 – un podcast che vuole esplorare le sfide cruciali che definiscono il nostro presente e plasmeranno il nostro futuro. Io sono Valeria Camia e con me è Alessandro Vaccari. Oggi è con noi per parlare di ambiente Paolo Di Paolo, scrittore, autore di “Romanzo Senza Umani” che ha partecipato al Premio Strega 2024 ed è arrivato ad essere finalista.
Questo romanzo tratta una tematica che ci tocca da vicino. E abbiamo scelto di affrontarlo con un autore e un libro che non è un saggio scientifico sui disastri ambientali, ma comunque ci consente, attraverso lo strumento della narrativa, di toccare con mano l’impatto che i cambiamenti climatici hanno sulla vita di ognuno di noi.
In Romanzo Senza Umani, la storia del lago di Costanza, che rimase completamente ghiacciato per sei lunghissimi mesi, tra il 1572 e il 73, si interseca con la storia del protagonista umano del romanzo, che è uno storico, Mauro Barbi, il quale parte per un viaggio da Mestre a Monaco in treno e poi rientra in volo da Zurigo con uno stop presso il lago di Costanza, alla cui glaciazione il professore Mauro Barbi ha dedicato molti anni di studio e è anche in procinto di parlare di questa sua ricerca della glaciazione del lago di Costanza in uno show televisivo.
Non è una questione solo di meteoropatia, diciamo così, il fatto che ti svegli bene o male a seconda della luce che c’è fuori del giorno di pioggia o del giorno di sole che ti mette di buon umore, è una questione proprio del contraccolpo di natura emotiva che ha il clima sulle nostre vite.
Paolo di Paolo
Paolo di Paolo, la glaciazione del lago diventa un po’ la metafora di un’altra piccola glaciazione, quella che ha congelato la vita di Barbi bloccando nel passato volti e nomi, relazioni e premesse. Allo stesso tempo nel romanzo è forte il legame tra quella che è appunto la traccia umana, quello che noi ci lasciamo dietro e la nostra impronta ambientale. È così?
«Quella che oggi noi chiamiamo eco-ansia è un’espressione che sta in circolo da poco tempo, almeno nella coscienza dei più; è qualcosa che in realtà l’essere umano in rapporto con gli eventi atmosferici, col paesaggio climatico ha sempre vissuto. Non riusciamo a raccontare niente di quello che ci sia accaduto senza evocare un fondale climatico: che sia una giornata campale, che sia una giornata che comunque ha un peso per noi, una giornata dolorosa, è difficile che la memoria non abbia fissato anche il quadro climatico e questa dimostrazione del fatto che tutto ciò che accade intorno su questo pianeta significa qualcosa da un punto di vista emotivo. Allora, da un lato mi interessava sotterraneamente, non in modo esplicito, indagare questa dimensione di come il clima determini dei sentimenti, degli stati d’animo, li modelli in qualche modo, li orienti, qualche volta davvero le condizioni. Invece di raccontarlo nel presente o in un ipotetico minaccioso futuro sulla linea soprattutto del grande caldo, ho risalito i secoli e sono andato a cercare questo grande freddo, con ragioni evidentemente non di natura antropica, quindi quello è uno sbalzo climatico violento, che ha ragioni tra l’altro non del tutto ancora trasparenti, ma non legate all’attività dell’uomo, però proprio perché penso che la letteratura non debba intervenire in un modo diretto, ma sempre sghembo, per provare a farci ragionare su qualcosa che sta accadendo, che ci accadrà, non partendo dalla frontalità dell’attualità.
Dall’altro lato, per me era interessante che questo personaggio ricostruisse gli eventi della sua vita sulla base di una sorta di climatologia interiore, cioè che riconducesse gli eventi della sua esistenza a stagioni più o meno fredde, più o meno calde, più o meno tropicali, le secche della speranza, appunto gli inverni del disincanto, usando questo bacino metaforico che riporta gli eventi della vita interiore appunto a dei climi più o meno marcati o estremi.»
Sia nel romanzo che anche nella sua intervista compare un po’ la difficoltà a comunicare la tematica del clima. Da una parte lei dice che per parlarne, per farsi capire, bisognerebbe aumentare la conoscenza, dall’altra parte però ha dichiarato che la conoscenza di fatto viene sopraffatta da emozioni che impediscono questa comunicazione. L‘arte in genere, e la narrativa in particolare, possono invece preparare perlomeno il terreno a una comunicazione su questi argomenti, oppure come dice Amitav Ghosh, è culturalmente impossibilitata a farlo?
«La presenza dentro il mio cantiere di Amitav Ghosh ha avuto un peso specifico, molto decisivo, perché la Grande Cecità, il libro a cui alludevate, è un libro che mi ha fatto riflettere su quanto fosse difficile, per via narrativa letteraria, portare un tema come quello del clima. Non volevo scrivere un libro sul cambiamento climatico, lo ribadisco, ma mi sono reso conto che Ghosh stava ponendo una sfida, trasformare in una storia certe inquietudini, certe angosce: attraverso una storia far guadagnare consapevolezza, ed è chiaro che quella dialettica, anche molto problematica tra emozioni e razionalità, tra coscienza lucida e coscienza invece sopraffatta dall’eccesso di informazioni, da una reazione epidermica, le cose che succedono nel mondo. Questo crea un groviglio indistricabile sul piano del discorso pubblico non fa che rendere sempre più difficile portare i cittadini e le cittadine a una consapevolezza. Nel campo della narrativa, da un certo punto di vista, è invece un valore aggiunto questa confusione, questa incertezza, perché io credo che il campo della letteratura sia proprio quello dell’inquietudine, dell’incertezza, del dubbio, dell’ambiguità.
Non capire in un romanzo può essere addirittura più interessante che capire. Essere messi di fronte a un personaggio un po’ assurdo, un po’ fuori asse, che ragiona sul clima di 4 secoli e mezzo fa, che cerca di arrivare preparato a una trasmissione televisiva dell’oggi, in cui però si accorge di non riuscire a dire fino in fondo quello che vorrebbe dire, tutto questo mescolare i piani, le epoche, i livelli, in realtà produce una confusione che secondo me potrebbe, almeno per come interpreto io l’ufficio del romanzo, lo spazio del romanzo potrebbe essere perfino positiva. Cioè farti generare domande e questo generare domande è già un valore aggiunto, un approdo della letteratura.»
Lei prima ha parlato di vulnerabilità, di questa ecoansia – che è qualcosa molto tipica della nostra generazione, soprattutto tra i più giovani. Ce lo dimentichiamo, lo rinneghiamo, eppure il clima ha un impatto innegabile sulla nostra vita, e la nostra vita sul clima. Possiamo pensare l’uno senza l’altro?
«Che significa scrivere in assenza di umani laddove uno immaginasse uno spazio di descrizione del paesaggio lasciato a se stesso, abbandonato, spopolato per ragioni di catastrofe, per ragioni di clima ostile, senza la figura umana? Come faccio a scrivere, a descrivere quel paesaggio? Il titolo del mio romanzo è venuto fuori anche un po’ da lì. E poi perché leggendo un libro che si chiama Storia culturale del clima non a caso, lo stavo leggendo per ragioni mie, mi sono trovato di fronte a questa evidenza di un rapporto problematico col paesaggio climatico quando veniva raccontata la glaciazione del lago di Costanza.
Mi è sembrato un episodio tra i tanti di quella piccola età glaciale che però mi consentiva di entrare in un mondo disabitato, in un pezzetto di mondo disabitato, comunque in quel momento come davvero raggelato, letteralmente raggelato. Me lo sono immaginato e ha cominciato questa immagine a lavorarmi nella testa. Mi sono immaginato che poteva significare quell’assenza di umani, anche solo transitoria, che poteva significare quell’inverno che non finiva mai come un’estate o darci la sensazione di non finire mai.
E da lì naturalmente però, poi arrivata la conclusione che non avrei potuto scrivere in un libro di puro paesaggio, mi sono trovato di fronte a questo personaggio che cammina intorno a un lago che in parte ero anche io, non da un punto di vista biografico in senso stretto, ma da un punto di vista del viaggio che il personaggio fa, perché io stesso mi sono messo a girare intorno a questo lago per cercare delle risposte che mi avrebbero poi consentito di scrivere questa storia. Il titolo del romanzo stesso e le sue considerazioni mi sembrano anche un po’ una provocazione, perché forse siamo davvero confrontati di fronte alla possibilità o al pericolo di un mondo senza umani.
Che si possa scrivere un romanzo in assenza di umani invece è una contraddizione in termini, nei fatti, perché senza gli umani è ovvio, è tautologico, senza gli umani è molto difficile che si generi racconto, almeno fino a prova contraria.»
Sempre rimanendo sull’ambito emotivo, la narrativa, agendo in parte sul campo delle emozioni, può aprire la strada a un discorso anche razionale che finalmente venga ascoltato, cosa che ora non mi sembra molto attuale?
«Pensavo proprio questo, che in realtà si può guadagnare anche una coscienza di cittadini e di esseri umani passando dentro la confusione emotiva di una storia. Il compito di un romanziere non è quello di un saggista, non è nemmeno quello di un giornalista, ma torno a dire che nel groviglio di emozioni anche contraddittorie ogni tanto tu hai l’impressione, almeno lo lettore di romanzi, di aver intuito qualcosa che altrimenti non avresti intuito. Quel qualcosa genera un interrogativo che non ti saresti posto se non fossi incappato in quella storia, può essere di natura esistenziale, di natura politica, di varia natura, però quella cosa determina poi magari un interesse d’approfondimento, un’autoanalisi, uno scarto improvviso, una sterzata rispetto al processo della conoscenza e della consapevolezza.»
Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali.
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