Due eventi – uno dei quali ha ricevuto, purtroppo e in modo molto triste, pochissima attenzione da parte dei media – mi hanno spinto a scrivere questo articolo.
Il primo evento riguarda il fatto che, nel centro di Washington D.C., il murale autorizzato dalla città (creato nel 2020 dopo che un agente di polizia di Minneapolis uccise George Floyd facendo pressione sul suo collo per più di nove minuti fino a soffocarlo) e visibile nell’area rinominata Black Lives Matter Plaza non esiste più. Come mai? “Semplicemente perché” un deputato repubblicano ne ha recentemente richiesto la rimozione come condizione per i futuri finanziamenti federali.
Il secondo evento è più personale: riguarda la mia sfortunata domenica al pronto soccorso di un ospedale a Lovanio e la consapevolezza che se il medico non avesse parlato inglese (dato il mio povero neerlandese) le conseguenze avrebbero potuto essere potenzialmente più gravi.
Come uno più uno fa due… ho iniziato a collegare – non sono nemmeno sicura del perché – queste situazioni: discriminazione (per arrivare fino a razzismo sistemico), e salute. In che modo questa combinazione amplifica le disparità sanitarie già esistenti?
Devo tornare indietro nel tempo e fare una piccola digressione. Vivevo nel Regno Unito quando il governo britannico lanciò un piano d’azione quinquennale, chiamato Delivering Race Equality in Mental Health Care, con l’obiettivo di creare personale medico competente attraverso una formazione obbligatoria sulla sensibilità culturale. L’approccio mirava a garantire che i professionisti della salute mentale riconoscessero il background culturale dei pazienti, migliorando la comprensione e riducendo i casi di discriminazione. La proposta era seguita, come spesso accade, a una disgrazia: l’inchiesta sulla morte di David Bennett – un uomo afro-caraibico di 38 anni morto nel 2006 durante una procedura di contenzione in una struttura psichiatrica – aveva infatti spinto a introdurre una formazione obbligatoria sulla competenza culturale per affrontare il razzismo, sia palese che nascosto. Insomma, già diciotto anni fa, si parlava della necessità per i professionisti di comprendere i bisogni culturali e sociali dei pazienti appartenenti a minoranze etniche.
È (stato) sufficiente? Già all’epoca alcuni esperti avevano fatto notare un aspetto importante: la cultura varia anche all’interno degli stessi gruppi etnici. La questione era ed è più complessa. Lo aveva fatto notare anche, Joanna Bennett, ricercatrice e sorella di David Bennett, nel suo invito a fare in modo che la formazione andasse oltre la semplice consapevolezza culturale e affrontasse gli squilibri di potere sistemici nella sanità mentale.
Oggi, studi confermano che nel Regno Unito – e non solo – le persone appartenenti a minoranze etniche continuano a essere significativamente più soggette a ricoveri psichiatrici e a procedure di contenzione. Ciò significa che i fattori strutturali alla base di queste tendenze – tra cui razzismo sistemico, mancanza di fiducia nei servizi sanitari e barriere all’accesso – non possono essere risolti solo con la formazione del personale.
E allora? Sembra che il vero progresso richieda cambiamenti strutturali nel modo in cui vengono erogati i servizi di salute mentale, a partire, dicono gli esperti, dal riconoscere e smantellare le strutture razziste nelle politiche e nelle pratiche sanitarie, portare il supporto direttamente nelle comunità dove lo stigma può impedire la richiesta di aiuto, garantire che i servizi ascoltino e coinvolgano i pazienti e le loro famiglie nelle decisioni terapeutiche e, ultimo ma non meno importante, incoraggiare una maggiore rappresentanza di professionisti appartenenti a minoranze etniche a tutti i livelli della sanità mentale.
Proprio a partire da quest’ultimo punto (ovvero l’inclusione della comunità nella cura, potremmo dire), ripenso alle recenti ore trascorse in attesa in un centro ospedaliero. Pensavo a come avrei voluto, in quel momento, che la porta si aprisse e un medico mi accogliesse in italiano. Mi concentravo nel cercare termini “medici” per elencare i miei dolori in inglese e provavo a immaginarmi, alla peggio, di dover utilizzare il mio incerto neerlandese. Certo, se si sceglie di vivere in un paese straniero, si deve accettare “tutto” il pacchetto, anche – in caso di bisogno – eventuali disagi linguistici. E io non appartengo a nessuna minoranza. Alla fine, ero solo felice di vedere un medico…
Purtroppo non è sempre così. Si tratta, quello che scrivo, di un terreno scivoloso, me ne rendo conto, ma io penso alle comunità marginalizzate o marginali, spesso costituite da minoranze etniche, migranti e gruppi socio-economicamente svantaggiati, e che affrontano barriere significative nell’accesso alle cure mediche. In questi contesti, sebbene la formazione sulla parità tra i gruppi etnici abbia certo un ruolo nell’aumentare la consapevolezza, non è una panacea per le profonde disuguaglianze nella sanità mentale che tante comunità ancora sistematicamente vivono. Diversi studi, infatti, hanno dimostrato che un’identità condivisa tra medico e paziente può migliorare la comunicazione, la fiducia, l’esperienza del paziente e l’aderenza alle prescrizioni mediche. Una ricerca del 2018 – giusto per citare un caso – condotta su uomini neri a Oakland ha rilevato che coloro che erano curati da un medico nero erano più propensi a sollevare specifiche preoccupazioni sulla propria salute e a sottoporsi a screening invasivi rispetto a coloro che erano curati da un medico bianco.
Va da sè che in un mondo sempre più interconnesso e cosmopolita, le disuguaglianze sanitarie rappresentano una sfida cruciale. Per questo motivo, la formazione di medici provenienti da queste stesse comunità marginalizzate o discriminate è essenziale per garantire un sistema sanitario più equo, culturalmente competente e accessibile a tutti. Tutto ciò richiede azioni anzitutto sistemiche, un impegno istituzionale attraverso borse di studio, programmi di mentoring e politiche di accesso facilitato alle facoltà di medicina.
E per coloro che sono poco interessati o coinvolti nella questione di giustizia sociale, si può ricordare che formare medici all’interno delle comunità marginali è anche un passo necessario per migliorare l’efficacia e l’equità del sistema sanitario. Di tutti, anche “il tuo”…