Di fronte a teorie ancora contrastanti sull’origine e il funzionamento dei disturbi mentali, la psichiatria si apre a nuovi orizzonti grazie a modelli matematici e strumenti digitali. Ma il peso dello stigma resta un ostacolo profondo.
Qualche settimana fa ho avuto l’opportunità di intervistare Giovanni Briganti, specialista in psichiatria e medicina computazionale, professore e direttore del dipartimento di medicina computazionale e neuropsichiatria presso l’Università di Mons, in Belgio, nonché professore di salute digitale all’Università di Liegi e docente all’Université libre de Bruxelles.
Nel panorama odierno della salute mentale, una certezza si fa sempre più strada: i sintomi non sono elementi isolati, bensì si influenzano a vicenda in maniera complessa. In questo contesto, potremmo dire, si colloca il contributo scientifico (e pratico) del dottor Giovanni Briganti, deciso di affrontare il problema da un’angolazione innovativa: la matematica.
«Applicare modelli matematici ci permette di comprendere meglio le connessioni tra i sintomi. Facciamo un esempio pratico: una persona con disturbo bipolare potrebbe iniziare a dormire meno e successivamente sviluppare un umore euforico, che evolve in una fase maniacale. Oppure il ciclo potrebbe iniziare da un aumento dell’attività fisica, che porta a un sonno ridotto e infine a un episodio di umore alterato. Analizzare questi nessi ci aiuta a capire come funzionano davvero i disturbi mentali», spiega Briganti (che è anche membro fondatore dell’Ass. Medici Italiani in Belgio (AMIB).
Ma il valore di questo approccio non si ferma alla diagnosi. «La vera sfida arriva dopo. Una volta diagnosticato un disturbo e avviato il trattamento, dobbiamo riuscire ad accompagnare il paziente nella quotidianità. Sorvegliare i sintomi giorno per giorno, magari notando che una persona ha dormito solo due ore invece di sette, può far scattare un campanello d’allarme. Significa intervenire prima che si verifichi una ricaduta.»
Ecco perché, continua Briganti, l’Intelligenza Artificiale (AI) rappresenta uno strumento dalle potenzialità straordinarie, là dove è protesa a sviluppare modelli predittivi accessibili a tutti i pazienti, affinché possano monitorare la propria salute mentale in autonomia.
Ci sono, certo, dei rischi. «L’AI segue la volontà dell’utente. Se una persona depressa con pensieri suicidari interagisce con un modello mal progettato, potrebbe ricevere conferme pericolose. Ecco perché questi strumenti devono sempre essere usati sotto la supervisione di un medico. L’intelligenza artificiale può essere un valido supporto, ma mai un sostituto del professionista.»
A tutto questo si aggiunge un nemico silenzioso ma potentissimo: lo stigma. Il disagio mentale continua a essere circondato da pregiudizi, vergogna e isolamento sociale. «Per molti, il momento più difficile non è nemmeno iniziare la terapia, ma prendere il telefono e fissare un appuntamento. Anche sedersi nella sala d’attesa di uno psichiatra può essere un momento carico di ansia, perché se sei lì, vuol dire che “qualcosa non va”. Questo è il cuore dello stigma: un giudizio che arriva dagli altri, ma anche da sé stessi.» L’autostigma – il senso di colpa e inadeguatezza che molte persone si autoimpongono – si somma allo stigma sociale e a quello istituzionale. «Le istituzioni, le aziende, i governi tendono ancora a guardare con sospetto le persone con disturbi mentali. Non si capisce che un problema psichico può essere invalidante quanto – se non più – di una malattia fisica.»
La strada verso una psichiatria più umana, scientifica e libera da pregiudizi è ancora lunga. Ma il cambiamento, per il professore, è in atto, passa anche attraverso l’algoritmo, e non deve fare paura.
Puoi ri-ascoltare l’intervista integrale (andata in onda l’08 aprile sulle frequenza di Radiocom.tv) qui: