Parlare di depressione per salvarsi la vita

Una tristezza profonda, o la perdita di interesse per ciò che solitamente ci appassiona: è così che spesso si immagina la depressione. Ma questa visione è riduttiva. La depressione non è solo un “sentirsi giù”, bensì una vera e propria malattia, complessa e difficile da definire con precisione. È una condizione della mente, che non si può “vedere” attraverso una risonanza o un esame del sangue, ma che viene diagnosticata grazie all’osservazione dei sintomi psicologici e del comportamento delle persone. Riconoscerla e curarla è fondamentale, perché senza terapia la depressione può essere mortale. Ne scrivo in occasione della prossima Giornata Europea sulla Depressione (il 18 ottobre) che segue di pochissimi giorni la Giornata mondiale della salute mentale (il 10 dello stesso mese). E lo faccio ricordando un incontro, per quanto telefonico, avuto già qualche mese fa con Paolo Milone, psichiatra e autore del saggio L’arte di legare le persone, un titolo che non passa insosservato — anche dopo le battaglie del medico Basaglia.

«Quando diagnostichiamo la depressione, dobbiamo affidarci al racconto dei sintomi da parte delle persone», spiega Milone. «Come medici, dobbiamo analizzare quello che ci viene detto per comprendere cosa sperimentano coloro che abbiamo di fronte e indagare, ma non è sempre facile». Nei casi di depressione maggiore, continua lo psichiatra, «che è una malattia psichiatrica grave, una psicosi, spesso chi ne soffre vive accompagnato da deliri di colpa, di rovina, di indegnità, al punto di non essere in grado di valutare oggettivamente la realtà». In questi momenti la persona può convincersi di scenari tragici — malattie incurabili, abbandoni, fallimenti — che in realtà non esistono. «Vive dentro una narrazione interna distorta e disperata, che può portarlo a desiderare la morte per motivi che, una volta guarito, si riveleranno completamente infondati».

Per questo è essenziale raccogliere informazioni anche dai familiari, così da costruire una diagnosi accurata e impostare una terapia adeguata. Una cura che, sottolinea Milone, «deve poter includere anche, là dove necessario, l’uso di psicofarmaci», perché essere depressi non significa semplicemente “essere tristi”.

I numeri lo confermano. Secondo i dati dell’IHME Global Burden of Disease (2024), tra il 2% e il 6% della popolazione mondiale ha sperimentato la depressione nell’ultimo anno: oltre 332 milioni di persone, contro i 176 milioni del 1990. Negli Stati Uniti, una donna su tre (33%) e un uomo su cinque (19%) entro i 65 anni soffrono di disturbo depressivo maggiore (MDD). In Italia, nel 2021, si contavano 3,2 milioni di persone con diagnosi di disturbi depressivi (e oltre 4 milioni con disturbi d’ansia). Inoltre, il numero di anni di vita “persi” per cattiva salute, disabilità o morte precoce — misurati tramite i DALYs (Disability-Adjusted Life Years) — è stato pari a 932,8 ogni 100mila persone, in aumento rispetto ai 855,8 del 2000.

La depressione non risparmia nemmeno i più giovani. I dati dell’OMS indicano che circa il 15% dei bambini e adolescenti nel mondo soffre di disturbi depressivi. In Danimarca, dove il fenomeno ha un forte impatto sociale, l’età media della diagnosi si è abbassata negli ultimi decenni: nel 1996 la depressione colpiva in modo simile tutte le fasce d’età, mentre nel 2016 le diagnosi erano molto più frequenti tra i giovani adulti. «Questo trend si è acuito in seguito alla pandemia di Coronavirus, quando ci si è ritrovati tutti più fragili: l’Italia non fa eccezione», spiega Milone. «Qui assistiamo a un aumento del numero di ragazzi e ragazze di giovane età che mostrano sintomi depressivi». Tuttavia, precisa lo psichiatra, «questo non significa che chi ha un episodio in giovane età sia destinato a una depressione cronica. Alcune persone vivono questa condizione in modo continuo, mentre per altre si manifesta a episodi, con lunghi periodi senza sintomi».

Oggi la depressione viene considerata come uno spettro di sintomi, non come una semplice presenza o assenza. La diagnosi tiene conto della gravità, della frequenza e delle sfumature delle esperienze individuali. Si analizzano anche aspetti più complessi, come l’autocolpevolizzazione, i pensieri legati a errori passati, i sintomi psicotici (come i deliri) e il rischio suicidario.

E proprio il suicidio rappresenta una delle conseguenze più drammatiche. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 2019 si sono registrati oltre 700mila suicidi nel mondo, rendendolo la quarta causa di morte tra i giovani tra i 15 e i 29 anni. Le cause sono molteplici — biologiche, psicologiche, sociali, culturali — ma i disturbi psichiatrici restano tra i principali fattori di rischio. «La depressione risulta essere il fattore di rischio più frequentemente associato al suicidio — conferma Milone —. Quasi tutti i pazienti depressi gravi pensano, più o meno esplicitamente, al suicidio. A volte non riescono a metterlo in atto per via dell’apatia e dell’abulia, ma la spinta è presente». Così, quando la malattia prende il sopravvento, «il paziente può convincersi che l’idea del suicidio sia una sua libera scelta, mentre è la malattia stessa a suggerirgliela». E, conclude Milone: «Il suicidio, in questi casi, non è un atto lucido, ma l’esito estremo di un delirio depressivo. Insomma, la depressione, nei casi più gravi, è una malattia che può uccidere».

La Giornata Mondiale della Depressione, allora, è l’occasione per ricordare che la depressione non è una debolezza né una colpa, ma una malattia. Parlare di depressione, riconoscerla e chiedere aiuto sono i primi passi per combattere il silenzio che spesso la circonda — e per restituire a chi ne soffre la possibilità di tornare a vivere, davvero.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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