In tutta l’Unione europea, la discussione sul cancro non è mai stata così urgente — né così politicamente complessa. Negli ultimi dieci anni, l’Europa si è posizionata come leader globale in materia di giustizia sociale, innovazione sanitaria pubblica e ambizione climatica. Il Pilastro europeo dei diritti sociali, il Green Deal europeo e il piano “Europe’s Beating Cancer Plan” hanno indicato una volontà comune di integrare salute, equità e sostenibilità in una visione coerente del futuro dell’Unione.
Eppure, nel 2025 questa visione si trova su un terreno instabile. Le elezioni europee del 2024 hanno portato a un Parlamento più frammentato, a una ridefinizione delle priorità e a un rinnovato accento sulla competitività economica a scapito degli investimenti sociali. Per le organizzazioni impegnate a combattere le disuguaglianze nell’assistenza oncologica — clinici, ricercatori, gruppi di pazienti e reti di advocacy — il nuovo clima politico introduce sia incertezza sia opportunità.
A Bruxelles, la comunità oncologica si è riunita per il Summit annuale dell’European Cancer Organisation (ECO) il 19 e 20 novembre, interrogandosi su una domanda centrale: come fare in modo che il cancro rimanga un pilastro dell’agenda europea sull’uguaglianza in questo scenario in evoluzione? Più precisamente: come agiscono i pregiudizi visibili e invisibili sugli esiti oncologici, e come può l’Europa abbattere le barriere che lasciano indietro così tante persone?
Ne emerge un messaggio decisivo: l’opportunità di integrare l’equità oncologica nei quadri europei di uguaglianza e giustizia sociale esiste ancora, ma solo se la comunità si mobiliterà con ambizione e unità. La realtà è chiara: in Europa, le possibilità di sopravvivere a un tumore dipendono non solo dalla scienza medica, ma da chi sei, dove vivi, dal tuo genere, etnia, reddito o orientamento sessuale. Questi fattori non sono marginali: definiscono l’esperienza del cancro. Ad esempio, le campagne di salute pubblica spesso non raggiungono comunità a basso reddito, minoranze etniche o persone LGBTQ+, e la partecipazione agli screening è costantemente più bassa tra i gruppi svantaggiati. L’accesso ai trattamenti varia in base alla geografia, allo status economico e a bias sociali radicati, lasciando le persone marginalizzate con minori possibilità di sopravvivenza rispetto a chi entra nel sistema con privilegi, visibilità o familiarità con le istituzioni. A farne le spese sono donne, migranti e persone LGBTQ+, che hanno maggiori probabilità di ricevere diagnosi tardive, sottolinea Stewart O’Callaghan, fondatore e CEO di OUTpatients.
Strumenti concreti per contrastare queste ingiustizie esistono. La Commissione europea sta infatti preparando la nuova Strategia per l’uguaglianza LGBTIQ (2026–2030), ed ECO ha già partecipato alla consultazione pubblica chiedendo misure specifiche. A dicembre sarà inoltre pubblicato Women and Cancer – Europe 2025, un rapporto che propone riforme per il carcinoma mammario infiammatorio, i tumori ginecologici, la diagnosi del tumore ovarico e un modello di assistenza sensibile al genere. Si tratta, in sostanza, di una vera roadmap di riforme politiche che affianca la ricerca.
Ma c’è poco da stare tranquilli. Una minaccia si profila: il crollo dei finanziamenti dopo il 2030. Il prossimo quadro finanziario pluriennale determinerà dunque la sopravvivenza delle iniziative sanitarie basate sull’uguaglianza. Se i finanziamenti diminuiranno, queste strategie potrebbero perdere priorità, le comunità vulnerabili tornare invisibili e le disuguaglianze oncologiche ampliarsi. I partecipanti al Summit hanno sottolineato ripetutamente che i finanziamenti determinano le politiche. Senza investimenti, anche le strategie meglio progettate diventano simboliche. Insomma, per raggiungere l’equità nella cura del cancro, gli attori devono agire collettivamente. L’uguaglianza non può essere delegata.
Un tema cruciale è quello dei dati, come ricorda Isabelle Soerjomataram, Vice Direttrice della Sezione di Sorveglianza sul Cancro dell’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC). Prendiamo il caso della popolazione femminile. Sebbene il cancro sia più frequente negli uomini, tra gli adulti sotto i 50 anni il 56% dei tumori colpisce le donne, molte delle quali devono conciliare lavoro, famiglia e cura di altri. Il 60% delle perdite economiche dovute al cancro nelle donne deriva dal lavoro non retribuito, non dall’occupazione. Eppure, la cura informale, svolta prevalentemente da donne, è scarsamente documentata e poco sostenuta. Senza dati disaggregati, le loro necessità diventano invisibili, distorcendo le priorità politiche e di ricerca. Anche per affrontare questo problema, ECO lancerà il Women in Cancer Policy Index, una mappatura delle politiche nazionali che riguardano le donne come pazienti, sopravvissute, caregiver e professioniste della salute. Il tool identificherà i progressi e offrirà raccomandazioni concrete per sistemi sanitari sensibili al genere.
Ma, come già accennato, le disuguaglianze non colpiscono solo le donne. Pesano profondamente anche sulle persone LGBTQ+. Molti registri oncologici nazionali non raccolgono informazioni su orientamento sessuale o identità di genere. Mancano dunque dati su stadio di diagnosi, adesione ai trattamenti e sopravvivenza. “Non sappiamo nulla: stadi, esiti, aderenza,” afferma O’Callaghan. “Siamo a un bivio. C’è paura nell’essere visibili nei dati, ma senza dati non possiamo proteggere nessuno.” Gli squilibri più gravi emergono nella diagnosi precoce. I sistemi sanitari spesso non riconoscono le esigenze di queste persone. Le persone trans che cambiano indicatore di genere possono smettere di essere invitate a screening per cervice o mammella. Chi necessita dello screening della prostata può non essere identificato come idoneo. “Questi obiettivi diagnostici iniziali vengono semplicemente mancati,” afferma O’Callaghan.
Le soluzioni esistenti sono poche e frammentarie, lasciando i pazienti al caso. Anche dopo la diagnosi, i bias continuano. Ad esempio, la ricostruzione mammaria è spesso presentata alle donne come scelta automatica, senza considerare che molte donne LGBTQ+ farebbero scelte differenti. I clinici raramente discutono l’impatto su identità, immagine corporea e vita sessuale. “Questo influisce non solo sul corpo della persona,” afferma, “ma sulle relazioni, sulle dinamiche psicosexuali.” Troppo spesso queste conversazioni vengono delegate a servizi di salute sessuale che non hanno competenze oncologiche, creando un vuoto di supporto che lascia i pazienti vulnerabili. Il cancro è già una delle principali cause di rottura delle relazioni; per i pazienti LGBTQ+, spesso privi del sostegno familiare, il rischio è maggiore. E anche quando sono presenti, i partner vengono spesso scambiati per fratelli, amici, caregiver o estranei. Durante la pandemia, l’esclusione dei partner dalle visite ha aggravato l’isolamento proprio nei momenti di maggiore necessità.
“Solo riconoscendo e affrontando le disuguaglianze visibili e invisibili che plasmano prevenzione, diagnosi e cura, l’Europa potrà trasformare le sue strategie in diritti concreti,” conclude Kathy Oliver, Co-Presidente dell’European Cancer Summit e Co-Presidente del Comitato Consultivo dei Pazienti dell’European Cancer Organisation (ECO), nonché Presidente e Co-Direttrice dell’International Brain Tumour Alliance (IBTA). Garantire un’assistenza oncologica equa non è una scelta politica, ma una responsabilità condivisa che deve tradursi in politiche, investimenti e dati al servizio di tutte e tutti.

