Addio, maestra di consapevolezza e dissenso

Si è scritto già tanto e subito, dopo la morte di Michela Murgia. Intellettuali e amici ci hanno regalato ritratti più o meno noti. Alcuni hanno voluto raccontare la sua personalità più privata, nascosta sotto la scorza dura del suo rigore politico, scevro da compromessi. Chi la amava e aveva voce pubblica non si è risparmiato nell’esporre la fragilità e il senso di spaesamento che segue una grande perdita. La sua cura verso l’umanità, da quella più ristretta della sua famiglia queer a quella rivolta a tutti i diritti negati delle minoranze, che lei coltivava attraverso la sua implacabile battaglia civile, rimane il tratto più distintivo nella nostra memoria.

È interessante notare come tutto l’odio e la rabbia sociale che le è stata riversata addosso in questi anni abbia generato un affetto così esteso e rumoroso, sinceramente addolorato, che si è manifestato a partire dalla piazza della chiesa degli artisti, nel giorno del suo funerale, gremita di persone che volevano esserci e condividere insieme questa tragica perdita.

Lella Costa, durante il suo discorso al funerale, ha usato questa parola, che per me racchiude tutto il senso di ciò che va detto: necessaria.

Abbiamo perso una intellettuale necessaria al nostro Paese. Perché il suo coraggio nel prendere sempre una posizione, anche quando questa richiedeva uno sforzo di osservazione e consapevolezza maggiori, è stata una prerogativa quasi unica nel suo genere.

Michela Murgia ha saputo fare della sua vita e del suo corpo un atto politico, fino alla fine. Ogni suo scritto, dai primi romanzi ai pamphlet sono state tutte dichiarazioni coerenti di un unico messaggio. Ha incarnato, in “tempi non sospetti” la figura dell’intellettuale impegnata su ogni fronte sociale e culturale e per questo costantemente esposta al pericolo.

La scrittura serviva a espletare il suo dovere: fare da lente di ingrandimento per rendere più visibili tutte le disuguaglianze sociali e di genere.

Ma di questo si è già letto e discusso ampiamente. Quello che vorrei ancora aggiungere è quanto Michela Murgia sia stata necessaria per me.

I maestri capitano nelle nostre vite, nei modi e nei luoghi più imprevedibili. A volte non ce ne rendiamo neppure conto di avercelo al fianco, finché non ci lascia e quel disorientamento confuso rivela l’entità della perdita.

Non ho mai voluto scrivere come lei, ho sempre aspirato ad essere come lei. Io che nelle discussioni mi tiro indietro frustrata ancora prima di dissentire. Io che manco sempre delle parole efficaci quando più servirebbero. Io che crollo di fronte a una critica innocua e temo sempre di non avere il diritto di provare a portare avanti le mie tesi se differiscono da quelle dei miei interlocutori.

Lei, con la sua dialettica impeccabile, la sua capacità di logica così rapida e incisiva, mi ha fatto tanto ridere trionfante a osservarla nei suoi scontri pubblici.

Riusciva sempre a mantenere la calma e una sottile ironia, da molti definita “stronza” con cui affilava la parola per tramortire l’interlocutore, o farlo piombare nel panico, come è successo a un noto psicologo sessista che grazie al suo “Stai zitta!” ha dato origine a uno dei dibattiti più interessanti, sul diritto di parola dato alle donne, sfociato poi in un bellissimo ed esilarante saggio della scrittrice.

Ha saputo accettare il dolore del suo mandato, insegnandoci la giusta prospettiva da cui osservare il nostro presente politico. Ha accettato le conseguenze fisiche di quella rabbia sociale, sfociata in crisi respiratorie e vomito che mi hanno mostrato ancora di più il coraggio e il costo della sua lotta.

Persino dentro il percorso della sua malattia ha saputo mostrare un approccio nuovo, profondamente umano e consapevole dell’accettazione. Da maestra, quale è stata, mi ha costretto ad affrontare, attraverso il suo esempio, la mia fobia della morte. Lei che non si è mai sottratta al racconto del suo cancro, alle aspettative di vita, ai sintomi e ai preparativi lucidi con cui ha accudito fino all’ultimo i membri della sua famiglia queer. Ci ha mostrato anche nella malattia l’urgenza di lottare per i diritti dei malati di cancro, le difficoltà che incontrano le famiglie “non conformi alla legge” di fronte all’assistenza al malato e alla presa in carico delle responsabilità economiche.

Non ha mai parlato del cancro come di un nemico da distruggere, ma di una cosa sua, nata dalle sue cellule, da accettare e curare nei limiti dell’accanimento terapeutico.

Non ha mai smesso, finché le forze glielo hanno permesso, di partecipare attivamente al dissenso pubblico. Postava articoli e ne soffriva, come di fatti accaduti sulla sua stessa pelle. Perché sentiva le ingiustizie di genere come le sue, soprattutto verso la narrativa insana sulle donne ancora utilizzata da molto giornalismo di ampio raggio . Da lei ho imparato a individuare il sessismo insito negli articoli di cronaca e attualità, a riconoscere consuetudini patriarcali così radicate da rendersi invisibili agli occhi di un lettore poco attento.

Ho scritto negli ultimi anni con la determinata ostinazione di voler essere letta da lei, conoscere la sua opinione, ricevere le sue critiche. Non accadrà più e questa consapevolezza è dilaniante come aprire Instagram e non trovare più le sue stories e i suoi post che mi davano il buongiorno.

Non so se ho acquisito da lei abbastanza consapevolezza da potercela fare da sola, da essere in grado di interpretare le scelte e le parole dei nostri ministri come solo lei mi guidava a fare, di saper leggere la realtà per quella che è e non quella che interpreta. Non so immaginare un’altra intellettuale in grado di tenere testa come lei in un contraddittorio, senza perdere mai quel sorrisetto malizioso e dolce allo stesso tempo.

Siamo in tante a sentirci sprovviste di strumenti per portare avanti il suo messaggio. Sembriamo una schiera di guerriere smarrite, senza più una leader che spiani il sentiero, che possa indicarci il modo per avanzare.

Ma al tempo stesso so che c’è solo un modo per tenerla ancora tra noi: prendere le sue parole potenti, che ci ha donato fino alla fine e rimpastarle a modo nostro. Magari non saremo efficaci e implacabili quanto lo è stata lei, ma di certo non staremo zitte.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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