Il 2 settembre è cominciato in Francia il processo a porte aperte contro Dominique Pelicot, settantunenne accusato di aver permesso a cinquantuno uomini di stuprare sua moglie Gisele Pelicot a sua insaputa, tramite sottomissione chimica.
La scioccante scoperta è avvenuta in seguito a un’altra denuncia, quando nel 2020 il signor Pelicot è stato fermato per aver ripreso con una piccola telecamera sotto le gonne di alcune signore in un supermercato. In seguito al sequestro del suo pc e del telefonino sono emersi migliaia di messaggi su chat in cui gli uomini si scambiavano commenti e descrizioni su abusi perpetuati alle loro partner sedate.
Tra le varie cartelle presenti sul suo computer gli acquirenti ne hanno trovata una dal titolo “Abuso” sulla quale erano stati caricati circa ventimila video di stupri a sua moglie Giselle in stato di incoscienza.
Al momento il capo di accusa ammonta a novantadue stupri che il marito ha filmato dopo aver somministrato alla moglie, per circa dieci anni, compresse di Tavor e sonniferi che la facevano cadere in uno stato di incoscienza profondo, una sorta di coma indotto, dal quale lei si risvegliava con vuoti di memoria.
Dopo aver preso contatto e organizzato l’incontro l’uomo di turno veniva accolto dal signor Pelicot, fatto spogliare completamente in cucina, per evitare di dimenticare indumenti o accessori in camera da letto e condotto in bagno, dove lo aspettava un bagno caldo per eliminare qualunque profumo o odore, compreso quello di sigaretta. Dopodiché veniva condotto in camera da letto dove si trovava Gisele, nuda sul letto, in posizione fetale, incosciente.
Quasi tutti gli imputati hanno negato lo stupro avvalendosi del fatto che il marito fosse presente e consenziente e accontentandosi delle spiegazione approssimative portate da Dominique Pelicot sull’incoscienza della moglie. Dire che era timida e fingeva di dormire, a quanto pare, è bastata ai più per mettersi la coscienza in pace.
Qui già emerge un elemento determinante che ha fatto indignare tutti i movimenti femministi presenti al processo e nelle piazze a sostegno di Gisele Pelicot: il tema del possesso, alla base di qualunque giustificazione di violenze patriarcali, la convinzione di possedere il corpo e la vita della propria compagna. Se il marito è d’accordo posso abusarne anch’io. Il consenso chiaro della donna è irrilevante.
Il secondo elemento significativo dell’intera vicenda su cui vale la pena riflettere emerge dalle dichiarazioni dell’imputato. Lui ha affermato che: -Stupratori non si nasce ma si diventa.-, citando, si spera a sua insaputa, la scrittrice e intellettuale Simone De Beauvoir che in un suo famoso scritto aveva dichiarato: Donne non si nasce ma si diventa. La frase di Simone De Beauvoir si riferiva alla tesi per cui sono i condizionamenti sociali e culturali, di stampo patriarcale, in cui le donne nascono, crescono e che assimilano inevitabilmente, a portarle a un certo punto della loro vita a cedere e a rientrare nei margini previsti per loro.
L’affermazione di Dominique Pelicot non ha fatto rivoltare nella tomba solo l’autrice originaria ma nuovamente l’intera opinione pubblica, prima fra tutte la moglie stessa, nel suo tentativo di spostare la vittimizzazione su di sé e sul suo passato infantile di esperienze abusanti che lo hanno reso quello che è. Non è nuovo questo meccanismo di ribaltamento da imputato a vittima. Pensiamo solo a tutte le giustificazioni di salute mentale e di degrado sociale che vengono troppo spesso accostate agli artefici di femminicidio: era depresso perché la moglie lo aveva lasciato, perché aveva perso il lavoro e non sapeva come sfamare la famiglia, è stato un episodio di follia derivato dalla disperazione, è stato abusato lui stesso da bambino.
Anche nel memoire di Neige Sinno, vincitrice del premio Strega Europeo 2024, “Triste tigre”, in cui l’autrice ripercorre la sua terribile esperienza di abusi perpetuata per anni dal suo patrigno, ricorda che durante il processo l’uomo ha più volte tentato di giustificare i suoi crimini con gli abusi subiti a sua volta da ragazzino.
Neanche troppo sottilmente sono fenomeni culturali consueti che si insinuano nelle accuse per trovare sempre la maniera di umanizzare il carnefice e alleggerire la gravità dell’accusa.
Ci ha provato anche il signor Pelicot ma, oltre a scatenare furenti reazioni di natura pubblica, ha anche innescato suo malgrado nella moglie Gisele una forza e un coraggio straordinari nello scegliere di rendere politica tutta la vicenda a partire dal processo che ha fortemente voluto a porte aperte.
Il giorno della prima udienza del processo è stato anche il giorno dell’ufficializzazione del divorzio tra Dominique Pelicot e Gisele Pelicot, ma la donna ha deciso di mantenere il cognome del marito, almeno fino alla fine del processo, affinché tutta la vicenda continuasse a essere strettamente connessa a quel cognome, come uno stigma a raccontare l’orrore che può celarsi dietro a un matrimonio e a una famiglia apparentemente felice, come lei era stata fino alla scoperta dei fatti.
Dominique Pelicot ha anche affermato: -L’ho amata per cinquant’anni e gli ultimi dieci l’ho amata male.-
Basterebbe questa frase a stilare un intero trattato sulla cultura che ancora ci domina e sovrasta, alle dinamiche di possesso in cui siamo costrette, molto spesso inconsapevolmente e alla leggerezza con cui permettiamo ancora di definire abusi perpetuati per anni a una donna sedata come “un amore distratto”.