Con pesanti accuse, dal favoreggiamento alla corruzione, è stato arrestato in Turchia pochissimi giorni fa Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e principale avversario di Erdoğan alle prossime elezioni presidenziali. Una mossa che mette in chiaro più che mai il carattere autocratico del sistema politico turco? Cosa c’è in gioco e l’Europa sta a guardare? Ne parliamo con Marco Magini, autore di Gli ospiti, pubblicato nel 2022 da Solferino, romanzo ambientato nella Turchia caratterizzata dalla politica repressiva del regime di Erdogan e dalla rivolta di Gezi Park fra il 2011 e il 2013.
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di Valeria Camia e Alessandro Vaccari
Pochi giorni fa, il sindaco di Istanbul e candidato dell’opposizione, Ekrem İmamoğlu, è stato arrestato dalla polizia turca a soli due giorni dalle primarie che avrebbero dovuto sancire la sua candidatura ufficiale. Questo arresto si inserisce in un contesto di crescente repressione politica che ha caratterizzato la Turchia negli ultimi anni, con un costante restringimento dello spazio democratico e il consolidamento del potere da parte del presidente Recep Tayyip Erdogan.
La motivazione ufficiale dell’arresto di Ekrem İmamoğlu è legata alla presunta mancanza di un diploma necessario per ricoprire determinate cariche pubbliche. Tuttavia, questa giustificazione ha suscitato grande scetticismo, considerando che in passato Erdogan stesso fu imprigionato prima di diventare primo ministro. L’episodio ha provocato un’immediata reazione popolare, con proteste di massa che da settimane animano le principali città turche.
“Secondo me – ci spiega Marco Magini, scrittore e conoscitore della Turchia – al momento ci sono due motivi dietro alle proteste. Innanzitutto, ovviamente, la deriva autoritaria che spaventa una larga fetta della popolazione. In questi anni, soprattutto dopo quello che viene definito il colpo di Stato del 2016, Erdogan ha preso l’occasione per agganciarsi in maniera sempre più forte a diverse aree del potere, sia giudiziario che esecutivo. Il secondo motivo è la crisi economica. La Turchia in questi anni ha avuto una crisi economica selvaggia, un’inflazione fortissima che ha reso vaste parti della popolazione sempre più povere e questo si è visto anche nei risultati elettorali. Quindi la somma della questione politica e della questione economica ha portato in queste settimane a grossi proteste di massa, soprattutto da parte della popolazione più giovane che, ricordiamo, ha conosciuto solo Erdoğan come primo ministro, visto che è al potere da vent’anni.”
Pochi giorni dopo l’arresto si sono comunque svolte le primarie, durante le quali gli organizzatori hanno dichiarato che 14 milioni di turchi hanno partecipato al voto che ha sancito la nomina di Imamoglu come candidato alla Presidenza della Repubblica. A differenza delle proteste di Gezi, che erano spontanee e nel tempo hanno perso forza proprio per la mancanza di una rappresentanza politica e di un orizzonte chiaro, oggi la situazione è diversa. La presenza di un partito politico strutturato e di un candidato carismatico – esperto di media e social media, sostenuto da un’organizzazione solida e con vent’anni in meno di Erdoğan – rappresenta un fattore di novità e di energia, che potrebbe fare la differenza rispetto alle proteste del 2013, spiega Magini, che però continua: “Tuttavia, c’è un’importante differenza: la Turchia di oggi è meno democratica rispetto al 2013. I meccanismi di controllo e bilanciamento del potere sono stati indeboliti, con un sistema giudiziario fortemente influenzato dall’esecutivo e forze di sicurezza – polizia ed esercito – che, dopo varie purghe, sono sotto il controllo diretto del governo. Anche le università hanno subito pressioni, con numerose proteste a Istanbul contro l’erosione della loro autonomia. Gli studenti sono in piazza da tempo, ma il contesto attuale rende difficile immaginare un cambiamento nel breve periodo.”
Parallelamente alla repressione dell’opposizione laica, Erdogan ha mostrato segnali di apertura nei confronti della minoranza curda, forse nel tentativo di ottenere il loro sostegno per modificare la Costituzione con la necessaria maggioranza dei 2/3 e garantirsi in tal modo un ulteriore mandato presidenziale. È possibile che la diversa gestione delle due opposizioni possa generare una frattura, con il rischio che i curdi si allontanino dall’opposizione e diventino, in un certo senso, un sostegno per Erdoğan? Per Magini, l’arresto di Ekrem İmamoğlu e l’apertura verso Öcalan e i curdi rappresentano due facce della stessa debolezza di Erdoğan.
“Dal punto di vista costituzionale, Erdoğan si trova attualmente nel suo ultimo mandato. Poiché alle ultime elezioni non ha ottenuto la maggioranza dei 2/3, ha due opzioni: convincere un altro partito a votare con lui per cambiare la Costituzione o indire elezioni anticipate per prolungare il suo potere. In questo contesto, aprire ai curdi avrebbe potuto offrirgli un’opportunità strategica. Dall’altra parte, l’opposizione ha mostrato la propria volontà di competere seriamente candidando Ekrem İmamoğlu alle primarie. Il movimento parlamentare nelle piazze e l’arresto dell’ormai ex sindaco di Istanbul, invece di indebolire l’opposizione, potrebbero aver ottenuto l’effetto opposto, rafforzandola. A questo punto, diventa difficile per il partito curdo giustificare alla propria base un appoggio a una riforma costituzionale che rafforzerebbe ulteriormente il presidenzialismo. Poi ricordo che il leader dell’opposizione curda è detenuto da anni, il che rende ancora più complicata una collaborazione con Erdoğan. Infine un altro fattore chiave nel rapporto tra Erdoğan e i curdi è la situazione in Siria, dove il presidente turco ha sostenuto un nuovo governo che ha preso il posto di quello di Assad. I curdi osservano con attenzione le mosse di questa nuova amministrazione, poiché, insieme all’Iraq del Nord, rappresenta il primo embrione di uno Stato curdo nella storia recente. In questo contesto, non sembra esserci, nel breve periodo, una prospettiva di pacificazione tra il partito curdo e l’AKP di Erdogan.
Intanto la comunità internazionale, a partire dall’Europa, sta a guardare, ricorda Magini: “Attualmente, la pressione internazionale su Erdoğan è praticamente inesistente, complice anche il disinteresse generale e la svolta autoritaria dell’amministrazione Trump negli Stati Uniti. Già nel 2013, durante le proteste di Gezi, l’attenzione internazionale non aveva avuto un impatto significativo sulla situazione, e oggi il contesto appare ancora più favorevole per Erdoğan. Nessuno sembra opporsi realmente alla sua deriva autoritaria; al contrario, viene visto come una figura prevedibile, capace di garantire una certa stabilità funzionale a determinati interessi politici. Di conseguenza, l’unico fattore che potrebbe alimentare nuove proteste non è la pressione esterna, ma una spinta interna, nata dal malcontento e dalla mobilitazione della popolazione”.