Basta con il cellulare?

Un giovedì di giugno. 2022.

10:30. La mia dieta digitale inizia ora. Entro in aeroporto. Il mio volo è verso il Belgio. Il mio cellulare e il mio portatile sono spenti. Forse dovrei metterli in “flight mode”: mi aiuterebbe, psicologicamente? Ma, meglio essere realista. Non servirebbe a nulla. Per le prossime ore, andrò offline. In parte per scelta, in parte per sfida. Sarò capace? Ho memorizzato, su un foglio proprio come si faceva ai vecchi tempi, le indicazioni per raggiungere la mia destinazione a Bruxelles. Destinazione del treno, fermata del bus, nome della strada. Mi pare di stare per intraprendere un’epica avventura. Eppure non è un secolo fa quando viaggiavo senza aggeggi elettronici sempre accesi al mio fianco …

11:00. Il check-in l’ho fatto online, i controlli sono veloci. Mi restano quasi due ore di tempo all’imbarco. Attorno a me, persone che smanettano sul computer, scorrono con l’indice su e giù dallo schermo, muovono veloci le dita mentre inviano messaggi. Di lavoro, ad amici, a un amore lontano, alla mamma…E io cosa faccio? Identifico dove poter acquistare un giornale (ne prendo due) e le parole crociate (ma davvero si vendono ancora?). Mi siedo al tavolo di un bar e mi rendo conto di essere l’unica a informarsi tramite supporto cartaceo. Mi piace. Sfogliare le pagine di inchiostro, sentirne la fisicità a contatto con la mia mano. Inizio a leggere. All’inizio mi distraggo. Alzo gli occhi di continuo. Guardo gli altri attorno a me. Ma nessuno sembra avermi notata, nessuno pare prestare attenzione a “quella con il giornale”… Mi immergo nella lettura. E mi sorprendo a fare qualcosa che vedevo fare da mio papà quando abitavo ancora con lui: cercare nella presentazione degli articoli un ordine. Priorità di una notizia sull’altra. Cerco nella borsa il cellulare per scrivergli un messaggio. Ma no, non posso condividere il mio pensiero subito. Ora. Il telefono è spendo. Il contatto con mio papà dovrà aspettare.

12:30. In volo siamo tutti uguali, tutti impossibilitati a inviare o ricevere contatti da chi è a terra. Ma quanti sono quelli come me, che hanno in mano un libro? Vedo tante cuffie e cuffiette posate con stile su teste inclinate all’ingiù, a guardare schermi che trasmettono film scaricati prima del viaggio o che mostrano videogiochi di diversi tipi. Non vorrei guardare il mio vicino, ma la curiosità non riesco a trattenerla. E’ immerso in un mondo sottomarino – il che è un po’ ironico dato che ci troviamo di certo oltre 8500 metri sopra il livello del mare. Mi scoccia non poter leggere il secondo giornale che ho acquistato a terra. Le pagine sono troppo larghe. Non ci pensa nessuno al fatto che ci sia ancora qualcuno interessato a sfogliare un quotidiano in volo?

14:00. Sono atterrata. Ho recuperato i bagagli. Vorrei scrivere a chi è rimasto in Italia che il volo è andato bene. E a chi mi sta aspettando in Belgio, che sono qui. Mi ricordo quando alle scuole medie trascorrevo un paio di settimane in un college inglese a imparare la lingua. Che pena per i miei genitori, ora lo capisco. Per parlarmi, dovevano attendere una mia telefonata. La ricerca di una cabina telefonica era una delle priorità di ogni mia vacanza-studio. Ora, anche volendo tenere tra le mani una cornetta, ne potrei trovare una, facilmente e senza dover perlustrare ogni centimetro dell’aeroporto? E se anche la trovassi, che numero digiterei? L’unico che ricordo, chissà perché, è quello che aveva il telefono fisso di mia nonna. Oltre vent’anni fa. La mia memoria telefonica è rimasta ferma là. Meglio non perdere tempo. Guardo il foglio di appunti sul viaggio. C’è un treno che mi porta a destinazione in partenza a breve. Mi incammino. 

In treno si ripete la stessa scena dell’aeroporto. Mentre quasi tutti guardano in giù, io volgo lo sguardo fuori dal finestrino – ho trovato posto accanto al vetro. Le case, piccole e con il grazioso giardino. I campi coltivati a mais o forse è frumento. L’orizzonte, piatto. I cavalli – ma quanti sono? Le piste ciclabili che costeggiano i binari. E poi la città che si avvicina. Gli edifici moderni sedi di chissà quali uffici. Le scritte, i cartelli pubblicitari e stradali, in una lingua che ancora non mi è famigliare. Attorno a me, silenzio. Nessuno parla. Tutti, sempre, guardano “quel” loro schermo. Quanto dura il tragitto in treno? Pochi minuti? Un’ora? Quanti notifiche FB avrei guardato durante questo viaggio? E invece, quante bellezze e cose nuove visto… Se avessi il cellulare acceso, scatterei alcune foto. Vorrei condividerle su Whatsup. E invece dovrò attendere. Vedo un riferimento alla NATO e mi assale l’angoscia di non sapere cosa stia succedendo ora nel mondo. Putin e Zalensky avranno fatto un’improbabilissima pace? Tutto bene in borsa? Il governo del mio Paese sarà sempre quello che ho lasciato poche ore prime?

Arriva la sera. E io mi trovo esattamente nel luogo in cui ero diretta. L’ho raggiunto senza aiuto di Google Maps o altre forme di supporto digitale. Mi sono persa, a dire il vero, per le vie di un quartiere vicino al mio, ma ho scoperto un piccolo, grazioso, negozio di libri usati. Un po’ da film. Ho assaporato un caldo caffè “sbagliato”, come ho appreso si chiama qua una dose di caffè filtrato con troppa aggiunta di latte. E mentre guardavo quella bevanda marroncina davanti a me, ho sfogliato riviste lasciate sul bancone vicino allo spazio con le torte.

Per nove ore siamo stati io e il mondo che mi circondava. Quello che potevo, per così dire, toccare. Vicino a me. Non quello digitale, lontano.

Nove ore: quante cose ho fatto in quello spazio temporale? Mi pare che il tempo si sia dilatato, possibile? Durante il viaggio, nelle attese e negli spostamenti, mi sono accorta di dettagli preziosi. Ho “sentito” voci e rumori. Già, ho percepito la presenza di altri attorno me. Ho pensato alle persone che non erano con me. Ho provato nostalgia e vissuto il distacco, che il mezzo digitale mi aiuta a colmare. Non c’era il cellulare a colmare la mancanza, con una “call” o l’invio di un messaggio vocale.

Quando riaccendo lo smartphone, trovo sette messaggi WhatsApp, di cui tre vocali; una decina di nuovi post e notifiche su Facebook; tre nuove email. Queste ultime sono di lavoro. Da Facebook rivedo la giornata di alcuni amici. I messaggi vocali sono dei miei figli. Li ascolto con gioia e li richiamo. Dal cellulare. Poi mi attendo una lunga sfilza di aggiornamenti dal mondo da leggere.

Basta cellulare. Basta tecnologia. No. E le ragioni credo siano ovvie. Ma per un po’, è stato bello, stimolante e difficile (quindi anche gratificante) “vivere” nel mondo vero e presente.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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