L’immagine è quella di un bambino scalzo, male vestito, la pancia gonfia che si nota sotto una canotta troppo stretta. Tiene tra le mani, sporche, una bottiglia d’acqua. Dietro di lui, una strada non asfaltata, una striscia di case distrutte. Adulti che si disperano. Qualcuno pare protestare. Lui, il bambino, sta in braccio a una donna dai capelli biondi e le unghie curate. La pelle chiara. Chiaramente non è la mamma biologica. Il primo piano del piccolo viene sostituito con quello della signora che seria dice qualche cosa del tipo “dona, anche tu puoi fare la differenza”.
Di campagne come queste, che vogliono spingere la popolazione ricca e occidentale a dare qualche spicciolo al terzo mondo, per lo più al continente africano, ne vediamo moltissime. Ogni giorno. Al di là del fatto che è doveroso aiutare chi vive in situazioni di guerre, conflitti e carestie (spesso causate, se guardiamo alle origini dei misfatti, dai “bianchi” e dai coloni che furono..); al di là del fatto che non è, purtroppo, sempre limpido e chiaro il percorso che compiono i soldi inviati da governi e privati in aiuto dell’Africa; al di là del fatto che è ridicolo l’impegno economico senza che sia abbandonata l’arroganza di issarsi a salvatori di un continente che è un insieme di tanti gruppi, tradizioni e religioni cui non si conoscono storie e nomi…
… Ecco al di là di tutto ciò (e tanto altro) che si potrebbe prendere in considerazione quando si sceglie di “fare la differenza”, c’è un’altra domanda su cui vale la pena di riflettere: in quale altro Paese al mondo è possibile farsi riprendere con un bambino “di altri” e postare la sua foto senza nessun consenso espresso dai genitori o chi ne fa le veci? La questione ce la pone con forza Faloyin Dipoe in “L’Africa non è un paese. Istruzioni per superare luoghi comuni e ignoranza sul continente più vicino”.
Faloyin Dipoe è uno scrittore e redattore senior per la rivista Vice, nato a Chicago ma cresciuto a Lagos. In Africa trova le sue radici e oggi continua a impegnarsi per sfidare gli stereotipi sul continente africano che abbondano tuttora nei media e nei dibattiti culturali “occidentali”. Il white saviourism (ovvero il complesso del salvatore bianco) è certamente una delle posizioni più dure a morire, accanto a una compromessa, imprecisa, se non addirittura sconosciuta panoramica storica del colonialismo europeo in Africa. Strettamente legata alla questione dell’egoismo “bianco” – caratterizzato dall’aiutare le popolazioni africane per esibizionismo piuttosto che motivato dalla reale volontà di aiutare le minoranze – c’è quella della foto con il bambino africano.
Nell’Unione Europea, il regolamento sulla protezione dei dati impone regole molto severe circa la pubblicazione di immagini, specialmente di minori. Senza il consenso esplicito dei genitori o dei tutori a scattare e condividere foto di un bambino online, non è possibile postare nulla. Al di fuori dell’UE, il Regno Unito applica regole simili e lo fanno in generale anche gli Stati Uniti e il Canada, con leggi federali e provinciali che regolano la privacy e la protezione dei minori. Dal Giappone alla Corea del Sud, passando per l’India (dove le norme sulla privacy sono in evoluzione), il Brasile,l’Australia e la Nuova Zelanda, in tutti questi stati troviamo normative che proteggono i diritti dei minori, incluso il diritto alla privacy digitale. In Africa le normative sono meno sviluppate o meno applicate. Ma questo significa che sia legale o etico usare foto di minori anche se per cosiddetti motivi umanitari?
Lo sfruttamento emotivo che foto e video di bimbi in condizioni di povertà, vulnerabili e senza i beni di prima necessità sicuramente aiuta ad amplificare la risposta emotiva da parte dei potenziali donatori del Nord globale. Ma questa spettacolarizzazione, compassionevole, della sofferenza non rafforza pericolosamente la narrativa di “noi che salviamo loro”, arrivando addirittura a disumanizzare i soggetti (i bambini) fotografati?
Per Faloyin Dipoe, poi, l’uso di immagini strazianti di bambini poveri o malnutriti induce anche a una visione monolitica dell’Africa come continente di perenne povertà, malattia e dipendenza, ignorando la sua diversità, il suo progresso e la sua capacità di azione (ampiamente discussa in “L’Africa non è un paese”.) E come in un circolo vizioso, tutto ciò va a influenzare negativamente la percezione che gli africani, in particolare i giovani, hanno di se stessi e del proprio potenziale, alimentando sentimenti di inferiorità o impotenza.
Insomma, a Londra, chiedereste – si chiede Faloyin – a tutti di smettere di fare quello che stanno facendo per posare per una foto con voi al centro dell’attenzione? Vedendo un bambino che fa le sue cose da bambino, lo terreste in alto come un trofeo? Immagino di no. Quindi, resistete all’impulso quando camminate in un villaggio. E se vi trovate in un Paese africano e sentite il bisogno di postare una foto di qualcosa, vi consiglio vivamente la frutta. La frutta è fantastica. Pubblicare foto di frutta.
Basta sfruttare la sofferenza: i bambini africani non sono un like!