In Italia il campanilismo non è un difetto caratteriale: è una struttura profonda. Prima ancora di sentirsi cittadini dello Stato, gli italiani si sono sentiti — e spesso continuano a sentirsi — cittadini di un luogo preciso, delimitato, riconoscibile: un paese, una città, una valle. Il campanile, più che simbolo religioso, è stato per secoli un dispositivo civico: segnava il tempo, convocava la comunità, definiva un “noi” contrapposto a chi stava appena oltre l’orizzonte.
Questo radicamento locale non è un’anomalia folkloristica, ma una chiave interpretativa centrale della storia italiana. Lo aveva ben compreso Stein Rokkan, uno dei maggiori teorici della formazione degli Stati europei, quando parlava del cleavage centro–periferia: la frattura strutturale tra il potere centrale e le comunità locali, dotate di identità, lingue, pratiche e interessi propri. In Italia, questo cleavage non è mai stato completamente ricomposto. L’unificazione nazionale è stata tardiva, spesso percepita come esterna, e si è innestata su un tessuto di città-stato, comuni, diocesi e micro-sistemi di potere già solidamente organizzati.
Il risultato è un Paese in cui l’identità nazionale esiste, ma convive — talvolta pacificamente, talvolta no — con un fitto mosaico di appartenenze locali. Il campanilismo, in questo senso, non è solo rivalità tra paesi confinanti o orgoglio municipale un po’ miope; è una forma di organizzazione del mondo. Prima viene “qui”, poi “là fuori”. Prima il dialetto, poi l’italiano. Prima la festa patronale, poi la festa nazionale.
Rokkan ci aiuta a capire perché tutto questo sia così resistente. Dove il centro statale non è riuscito a penetrare completamente — linguisticamente, amministrativamente, simbolicamente — le periferie hanno mantenuto un alto grado di autonomia culturale. In Italia, la pluralità dei centri (Firenze, Venezia, Napoli, Milano, Palermo…) ha impedito la nascita di un’unica narrazione nazionale omogenea. Il campanilismo è dunque il riflesso quotidiano di una storia lunga, stratificata, mai del tutto centralizzata.
Questa frammentazione identitaria non riguarda solo la politica o l’amministrazione. Riguarda il modo in cui gli italiani mangiano, parlano, festeggiano, si raccontano. Non è un caso che uno degli ambiti in cui il campanilismo si manifesta con più passione — e meno sensi di colpa — sia la cucina. Ogni paese ha la ricetta autentica, il formato di pasta giusto, ilmodo corretto di fare il sugo. Guai a confonderli. Guai a unificare.
Eppure, ironia della storia, proprio questa iper-località è diventata uno dei marchi più forti dell’identità italiana nel mondo. Il recente riconoscimento della cucina italiana come patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO — intesa non come elenco di piatti, ma come insieme di pratiche, saperi, rituali e tradizioni territoriali — certifica ufficialmente ciò che il campanilismo aveva prodotto da secoli: un’identità nazionale costruita per somma di differenze locali.
Il paradosso è evidente. L’Italia viene celebrata globalmente per ciò che è irriducibilmente plurale. La nazione si presenta come un arcipelago. E allora viene da sorridere, amaramente e con affetto, quando all’estero ci riducono a uno stereotipo: gli italiani, quelli della pasta. Perché sì, in un certo senso siamo “solo” pasta — ma una pasta diversa ogni dieci chilometri, difesa con zelo quasi costituzionale, caricata di memoria, orgoglio e appartenenza.
Il campanilismo italiano, oggi come ieri, non è né un semplice limite né una virtù assoluta. È una tensione permanente tra il vicino e il lontano, tra il locale e il nazionale. È ciò che rende difficile governare in modo uniforme, ma anche ciò che rende l’Italia riconoscibile, viva, irriducibile a un modello unico. Come direbbe Rokkan, il centro non ha mai vinto del tutto. E forse, nel rumore di fondo delle campane, va anche bene così.
Buone Feste!

