Ingiustizie e discriminazione a danno di bambini e ragazzi sono qui, da noi, dall’Italia che complica il tesseramento di giovani migranti nelle squadre sportive, al Belgio che vuole revocare la cittadinanza a bambini di famiglia palestinese.
In queste settimane due notizie, tra le tante, che riguardano i bambini, vittime innocenti, sono passate un po’ sottotono, dimenticate dall’opinione pubblica (giustamente) occupata a scandalizzarsi di fronte alle vite spezzate e alle atrocità subite dai piccoli e dai giovani in zone di guerra, penso all’Ucraina e a Gaza, i conflitti su vasta scale geograficamente più prossimi ai confini europei.
Però se volessimo guardare meglio, vedremmo che ci sono ingiustizie, fisiche e psicologiche, ai danni di bambini anche proprio fuori dalla finestra di “casa nostra”.
Prendiamo il mio caso e due esempi che arrivano, l’uno, da una città vicinissima a quella dove sono nata e, l’altro, dal Paese in cui risiedo ora.
“Quel pasticcio brutto dello Ius Soli sportivo abrogato” titolava a inizio ottobre Open, riferendosi al caso scoppiato a Reggio Emilia, in Italia, e a discapito dei minori stranieri, il cui tesseramento nei club di calcio italiani sta diventando molto difficile, al limite dell’impossibile.
I fatti sono questi: nel 2016 si era arrivati a una norma che equiparava i calciatori under 14 a prescindere dalla nazionalità e che permetteva quindi ai minori stranieri under 10 e residenti in Italia di “potersi tesserare nelle società sportive con le stesse procedure previste per i loro coetanei italiani”. Acqua passata. Ora, dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 36/2021, lo Ius Soli Sportivo è stato abrogato. Per evitare la tratta di baby giocatori, è questa la giustificazione ufficiale. Nobile, da un certo punto di vista. Ma dannosa e discriminatoria in termini pratici: ora gli under 14 che vogliono giocare in una squadra italiana devono fornire una serie di diversi documenti aggiuntivi, tra i quali anche il certificato di nascita e frequenza di almeno un anno nelle scuole italiane. Il tutto va mandato a Roma, perchè il tesseramento è ora gestito da una commissione minori della Figc, istituita nella capitale. Così le pratiche utili e la valutazione dei singoli casi diventano insostenibilmente lunghe (lo sappiamo come funziona la burocrazia in Italia) e va anche a finire che il campionato (di calcio) finisce prima che il ragazzino possa scendere in campo. E magari la squadra per cui si allena deve pure ritirarsi dalle competizioni perchè – come ha denunciato Gianni Salsi, presidente del Progetto Aurora, a Il Resto del Carlino – non è possibile iscrivere, per tempo, ragazzini extracomunitari, anche se nati e cresciuti a Reggio, e lì hanno frequentato le scuole.
Il secondo esempio arriva proprio in questi giorni dal Belgio. Sta succedendo che a seguito di una decisione presa la scorsa estate, in queste settimane diversi comuni del Paese hanno ricevuto dal dipartimento che si occupa dei flussi migratori la richiesta di ritirare la nazionalità a bambini nati su suolo belga da genitori palestinesi, anche nel caso di famiglie palestinesi rifugiate. Ovvio, la coincidenza temporale con la guerra tra Israele e Hamas non è delle più felici. A denunciare il tutto è stato Julien Wolsey, presidente dell’associazione belga per i diritti degli stranieri, che al quotidiano L’Echo ha dichiarato «Oltre al tempismo, completamente insopportabile che aggiunge benzina al fuoco, siamo di fronte a una pratica scandalosa dal punto di vista legale. L’Ufficio per gli Stranieri non ha alcuna competenza in materia di nazionalità e non può neppure dare ordini in materia alle municipalità». Il riferimento è alle norme che in Belgio affidano il diritto proprio ai comuni e non al governo. Dunque anche se la decisione è indipendente dal conflitto, come si premura di precisare l’ufficio di Nicole De Moor, segretaria di Stato per asilo e immigrazione, e è volta a «combattere le pratiche con cui persone che non ne hanno diritto cercano di acquisire la cittadinanza belga», viene comunque da chiedersi se il fine giustifica i mezzi.
In questo caso, la chiave di volta potrebbe arrivare da una decisione “giuridica”, come lo stesso articolo di L’Echo ricorda. Da un lato abbiamo il codice di nazionalità belga secondo il quale – caso unico in Europa – un bambino apolide nato in Belgio può ottenere di fatto la cittadinanza belga (e dal momento che la Palestina non ha uno Stato completo, a rigore i bambini nati da genitori palestinesi in Belgio dovrebbero essere considerati apolidi). Dall’altro lato, però, il codice di nazionalità stabilisce anche che questa disposizione non è applicabile ai casi nei quali il bambino può ottenere un’altra nazionalità – come quella palestinese, che però non è una vera nazionalità nel senso giuridico del termine… Un cortocircuito. Alcune alcune amministrazioni locali hanno già annunciato di non voler applicare la direttiva e si attende ora la posizione della Corte di Cassazione, dopo che cinque corti d’appello del Belgio hanno recentemente stabilito che i palestinesi non sono apolidi! Nel frattempo, i bambini (e le loro famiglie) aspettano.
Cari bambini, non è colpa vostra. E questo è tutto (solo) quello che sappiamo fare?