CO2, la Svizzera e le donne

La notizia è fresca di pochi giorni fa.

L’amministrazione Biden ha recentemente sospeso le locazioni di perforazione petrolifera nell’Arctic National Wildlife Refuge, mantenendo la promessa di proteggere la fragile tundra dell’Alaska dall’estrazione di combustibili fossili. “La decisione stabilisce un processo che potrebbe fermare la perforazione in uno dei più grandi tratti di natura selvaggia incontaminata negli Stati Uniti, casa di uccelli acquatici migratori, caribù e orsi polari ma che si trova anche su ben 11 miliardi di barili di petrolio”, scrive il New York Times.

Oggi sono comprovate le conseguenze dell’emissione di CO2, l’anidride carbonica, nota anche come diossido di carbonio, sul riscaldamento del nostro pianeta. Tutti noi, respirando, emettiamo anidride carbonica; ma sono le attività umane ad aver sconvolto le emissioni, generando enormi concentrazioni di CO2. 

Le conseguenze del surriscaldamento terrestre sono visibili nello scioglimento dei ghiacciai, inondazioni e siccità. Più di un terzo dei decessi legati alle ondate di calore in molte parti del mondo può essere attribuito al riscaldamento supplementare associato al cambiamento climatico, secondo un nuovo studio; inoltre l’innalzamento delle temperature è la causa di migrazione degli animali a latitudini più elevate rispetto al loro habitat naturale, come mostra una ricerca guidata dall’Istituto federale svizzero di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio (WSL): nelle Alpi svizzere, la temperatura media è aumentata di 1,8 gradi Celsius dal 1970. Più a nord, secondo il rapporto Obct\European data journalism network, l’Islanda ha registrato il più alto aumento della temperatura media (+3,43°C) dal 1960. Un aumento eccezionale della temperatura media annua si registra anche in Europa orientale e in particolare in Lettonia (+2,96°C), Lituania (+2,75°C), Ungheria (+2,73°C), Regno Unito (+2,71°C), Slovacchia (+2,47°C) e Polonia (+2,38°C).

Politiche di riduzione del CO2 si stanno facendo strada a livello globale. A livello dell’Unione Europea, ad esempio, sono stati fissati obiettivi ambiziosi costitutivi del Green New Deal e proprio l’Europa è il primo continente ad aver fissato l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 e ad aver previsto la riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030.

Il perimetro entro cui tutte queste misure si muovono è l’Accordo di Parigi, un accordo tra gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) per la riduzione delle emissioni di gas serra a partire dall’anno 2020.

Non tutti i Paesi inquinano allo stesso modo, ovviamente. È noto che la Cina sia tra quelli che inquinano maggiormente, con oltre il 27% delle emissioni mondiali, seguito da USA con l’11% e poi dal continente Europa. 

Le emissioni in Svizzera, invece, sono solo lo 0,1% . Ma la Confederazione Elvetica produce emissioni di gas serra pro capite molto elevate. Secondo i dati dell’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM), in un anno i cittadini e le cittadine svizzere producono emissioni di equivalenti di CO2 pari a 14 tonnellate per abitante – e infatti, la Svizzera non ha raggiunto l’obiettivo fissato dall’attuale legge sul CO2, di ridurre del 20% entro il 2020 le emissioni di gas serra rispetto al 1990. La riduzione è stata del 14%.

Per inciso: il 13 giugno si tiene in Svizzera un referendum che riguarda la legge rivista sul CO2, frutto di anni di lavoro e collaborazioni anche tra i partiti (con l’eccezione dell’UDC) e che mira a dimezzare le emissioni, sempre in rapporto al 1990, fra il 2022 e il 2030. Se vincesse il no sulla legge rivista sul CO2, come auspicato dalle 11 associazioni che hanno promosso il referendum (tra le quali quelle appartenenti al settore automobilistico e petrolifero, ma anche GastroSuisse e – seppur per motivi diversi – il comitato di Sinistra “per un’ecologia sociale”), non ci sarebbe un piano B e si verrebbe a creare, in Svizzera, un vuoto giuridico relativamente alla questione ambientale. Fine dell’inciso.

Non sono tutti i Paesi inquinano allo stesso modo – si è detto – così come non tutti gli individui sono toccati ugualmente dai cambiamenti climatici. Due esempi: migranti e donne.

Tragicamente nota è ormai la questione dei migrati ambientali, “persone o gruppi di persone che, principalmente a causa di un cambiamento improvviso o progressivo dell’ambiente che influisce negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case abituali, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e si spostano all’interno del loro paese o all’estero” (IOM, 2007:33). Alcuni dati: solo nella prima metà del 2020, i disastri hanno spostato 9,8 milioni di personee sono rimasti la causa principale di nuovi spostamenti interni a livello globale, con cinque Paesi che hanno rappresentato quasi il 75% dei nuovi spostamenti interni dovuti a disastri nella prima metà del 2020: India (2,7 milioni), Bangladesh (2,5 milioni), Filippine (811.000), Cina (791.000) e Somalia (514.000). Nell’anno precedente, il 2019, quasi 2.000 disastri ambientali hanno provocato 24,9 milioni di nuovi spostamenti interni in 140 paesi e territori – anche vicini a noi.

E poi le donne. Che sono sono più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico e hanno avuto negli anni passati meno probabilità essere coinvolte in politiche per l’ambiente, private dell’accesso a formazioni scientifiche o sotto-rappresentate nei comitati che prendono decisioni sulla sostenibilità ambientale – come ricorda l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che ha proprio tra i suoi obiettivi l’empowerment femminile coniugata alla sostenibilità ambientale. 

Lasciate a lungo ai margini di decisioni legate all’ambiente e al clima, le donne sono comunque molto toccate dai cambiamenti che toccano il nostro Pianeta. Ad esempio, nei paesi in via di sviluppo, le donne hanno maggiori probabilità di raccogliere acqua, cibo e legna da ardere e di cucinare i pasti, e quindi risentono maggiormente delle condizioni meteorologiche estreme, della scomparsa delle risorse idriche e del degrado del suolo. Le donne costituiscono anche una gran parte della forza lavoro agricola in molte nazioni in via di sviluppo.

A ciò si aggiunge che a fronte della scarsità di risorse, le donne spesso danno il cibo ai loro mariti e figli mentre negano se stesse e le loro figlie. E quando l’inquinamento atmosferico causa un picco di malattie come l’asma, è tipicamente la madre che rimane a casa per prendersi cura dei bambini malati, riducendo la sua produttività e la crescita della sua carriera, ha ricordato Naoko Ishii, amministratore delegato della Global Environment Facility senza scopo di lucro, in un’intervista al New York Times.

Tutto questo non può che farci riflettere. Riflettere sul perché la questione ambientale non guarda in faccia nessuno e tocca qualsiasi genere, età e sesso. Riflettere sul perché le decisioni che prendiamo sul clima sono globali: nessun muro può renderle circoscritte a certi territori e luoghi soltanto.

Infine, riflettere sul perché la decisione che il popolo svizzero prenderà, il prossimo 13 giugno, sulla legge rivista del CO2 non è solo una questione elvetica ma anche nostra. Di tutti. Riguarda noi, l’oggi, e i nostri figli, il domani e il mondo che vogliamo lasciare loro.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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