Come stanno le ragazze?

Il nuovo anno è iniziato, abbiamo chiuso i bilanci, deposto addobbi e bottiglie vuote, definito mentalmente o su carta i nuovi propositi, molti dei quali solitamente riesumati dall’anno appena trascorso. Tra i miei c’è quello di ripagarmi il privilegio, di cui dispongo in maniera del tutto casuale, con una sempre maggior consapevolezza di ciò che accade fuori dalla mia bolla. Questo significa, conseguentemente per voi lettrici e lettori, che mi impegnerò a scriverne sempre di più e meglio, correndo il rischio di risultare ridondante e non particolarmente ottimista.

La mia adesione al femminismo, lo sdegno di fronte alle disparità che ancora persistono nel nostro sistema economico e sociale, non mi fanno scendere dalla mia postazione privilegiata da cui osservo tutto questo. Sono nata e cresciuta in un luogo e in una famiglia che mi hanno assicurato per tutto il corso della mia vita la certezza dei diritti fondamentali, la possibilità di studiare cosa preferivo, di scegliere un lavoro che mi soddisfacesse e di trasferirmi da adulta in un altro paese non per necessità o bisogno ma per pura esperienza.

Per moltissime mie coetanee questi privilegi rappresentano di per sé l’ideale massimo cui aspirare al pensiero di una vita perfetta. Per noi sono presupposti scontati della nostra vita normale.

Per rendere meglio l’idea riporterò alcune delle notizie più inquietanti che ho letto nelle ultime settimane e che riguardano le condizioni delle donne nel mondo.

In Afghanistan le autorità talebane proseguono la loro campagna di eliminazione delle donne dalla vita pubblica, scolastica e lavorativa e hanno da poco introdotto un altro gravissimo divieto per le ragazze di frequentare le discipline cliniche. Era l’ultimo baluardo rimasto per tutte quelle studentesse che, una volta obbligate ad abbandonare le altre facoltà, dopo i precedenti decreti, si erano riversate sulla facoltà di medicina per poter continuare a studiare e conseguire una laurea.

La chiusura di quest’ultima possibilità di formazione per le giovani donne afghane non rappresenta soltanto l’ennesima attacco alle libertà fondamentali di un individuo, ma un gesto strategico realizzato con il solo obiettivo di ledere nel tempo alla salute e di conseguenza alla vita stessa di metà della popolazione afghana. In un paese in cui le donne non possono essere visitate da un medico, la salute delle donne era da tempo affidata esclusivamente alle operatrici sanitarie, mediche e infermiere, che lavoravano esclusivamente nei reparti femminili. Troncando nettamente il cambio generazionale di queste professioni, chi si occuperà delle donne? L’Unicef, così come diverse associazioni impegnate sul campo come Medici Senza Frontiere, hanno fatto appelli molto preoccupati, calcolando che gli effetti di questa decisione si cominceranno a vedere tra qualche anno con un incremento esponenziale dei casi di morte per parto e altre situazioni a rischio in cui non ci saranno più mediche in grado di soccorrere le donne.

Le Filippine, insieme al Vaticano, è l’unico paese al mondo che non prevede un legge per il divorzio. Sono state raccolte moltissime testimonianze di donne costrette in matrimoni abusanti, con mariti violenti e spesso alcolizzati che hanno tentato di divorziare ma non gli è stato permesso. Alcune hanno provato con l’annullamento del matrimonio che è tecnicamente possibile, ma il procedimento è lunghissimo e molto costoso. Altre hanno provato a lasciare i mariti, perdendo la custodia dei figli in quanto nullatenenti o impossibilitate a rifarsi una vita e comprare una casa perché serviva la firma del marito.

Questo perché come molti altri paesi asiatici, le Filippine hanno una lunga storia di colonizzazione e ogni occupante ha interpretato a modo suo il tema del divorzio. Solo alla fine del 2023 un primo disegno di legge, che dovrebbe consentire la possibilità di divorziare, ha finalmente superato una prima fase parlamentare, ma l’ostruzionismo dei conservatori e della Chiesa Cattolica ha continuato a rallentare l’iter di approvazione definitivo della proposta. Le donne filippine da anni denunciano l’assenza di un diritto fondamentale in un paese dove la violenza domestica è un problema diffuso.

A maggio del 2024 finalmente qualcosa si è mosso: la camera bassa del parlamento ha approvato una legge che potrebbe dare a chi si trova in matrimoni infelici o violenti la possibilità di chiedere il divorzio. È attualmente in attesa dell’approvazione del Senato, ma le Filippine si trovano in una fase politica nazionale piuttosto tesa, con scontri al vertice tra le due famiglie dominanti e la lotta per l’approvazione di questo diritto fondamentale per le donne non sembra tra le priorità del momento.

Secondo Human Rights Watch, dal settembre 2023 i combattenti delle Forze di Supporto Rapido (RSF) e le milizie alleate hanno violentato decine di donne e ragazze, anche in un contesto di schiavitù sessuale, nello stato sudanese del Kordofan Meridionale. Le sopravvissute raccontano di aver subito stupri di gruppo di fronte alle loro famiglie, o per lunghi periodi di tempo, anche mentre erano tenute come schiave sessuali dai combattenti delle RSF.

Nell’ottobre 2024, Human Rights Watch ha intervistato 93 persone dal vivo e da remoto. Di queste, 70 provenivano da insediamenti non ufficiali per sfollati nella regione dei Monti Nuba, nello Stato del Kordofan Meridionale, attualmente sotto il controllo del gruppo armato del Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese del Nord (SPLM-N). I ricercatori hanno intervistato sette sopravvissute allo stupro, tra cui una che ha detto di essere stata trattenuta con altre 50 donne e violentata ripetutamente per tre mesi. In totale, le sopravvissute e gli altri testimoni hanno fornito informazioni su 79 ragazze e donne, di età compresa tra i 7 e i 50 anni, che hanno dichiarato di essere state violentate. Secondo le persone intervistate gli aggressori erano tutti membri delle RSF in uniforme, o membri di milizie alleate. 

In cinque di questi casi, gli aggressori hanno violentato le donne e le ragazze dopo aver ucciso o minacciato i membri della famiglia. Nessuna delle donne intervistate immagina un modo per  ottenere giustizia. Una ha detto: “Non c’è niente che si possa fare. Posso solo sperare in Dio”.

Ed ha ragione perché la guerra civile in Sud Sudan e la conseguente catastrofe umanitaria persistono di fronte all’assoluta indifferenza del resto della comunità mondiale.

Mi fermo qui, anche se la lista potrebbe continuare, a partire dallo stesso Iran dove la nostra giornalista Cecilia Sala, di cui ho spesso scritto nei miei articoli, è detenuta nel carcere di Evin in una cella di isolamento, in condizioni inumane e senza nessuna accusa ufficiale, da più di due settimane. Ma per rispetto del silenzio stampa richiesto dalla famiglia non approfondirò questa triste circostanza. Lei stessa si trovava in Iran proprio per documentare la condizione dei giovani e in particolare delle donne, come già in passato aveva fatto durante i suoi viaggi di inchiesta, fondamentali per capire da dentro cosa significa vivere in un paese che calpesta e uccide chi si oppone al regime.

Non percepite anche voi, dopo aver letto queste notizie, una strana sensazione di disagio e gratitudine insieme? Ecco, questa è la percezione del nostro privilegio, che si fa più consapevole solo nel momento in cui decidiamo di non voltare le spalle e accettiamo di guardare e condividere. Questo credo sia l’unico modo per ripagare quella casualità che ci ha portato in salvo, a nascere e crescere con certezze e sicurezze che diamo per scontante e non lo sono per niente. Tra tutte, per ora ancora, la libertà di informazione e la possibilità di trovare fonti serie e attendibili per renderci più consapevoli su ciò che accade nel mondo. Se esiste un senso al nostro privilegio, forse, sta proprio qui.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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