La Conferenza dell’ONU sui cambiamenti climatici di Dubai (Cop 28) si è conclusa con un accordo finale unanime apparso a molti osservatori sorprendente dopo che si era a lungo temuto un completo fallimento; questo colpo di scena in extremis ha indotto alcuni partecipanti a esaltare oltre il dovuto i risultati faticosamente raggiunti. A mente fredda è perciò necessario qualche considerazione finale che sottolinei luci e ombre dei risultati raggiunti.
Il documento finale della Cop 28 menziona esplicitamente tutte le fonti fossili come massime responsabili delle emissioni di gas climalteranti; per la stragrande maggioranza degli esperti del settore si tratta della presa d’atto di un dato da tempo assodato in modo scientificamente incontrovertibile che tuttavia non era mai stato messo nero su bianco in nessuno dei documenti finali delle precedenti Conferenze climatiche. Viene di conseguenza rilevata la necessità di un transitioning away, un allontanamento da gas, petrolio e carbone che dovrà avvenire in modo “giusto, graduale ed equo” e che dovrà comunque essere accelerato “ in questo decennio critico” per conseguire, con l’impegno di ogni singolo Stato, una riduzione del 60% delle emissioni climalteranti in vista dell’obiettivo finale di zero emissioni nette entro il 2050. Si spera in tal modo anche di disincentivare gli investimenti nelle energie fossili che non dovrebbero più essere ritenuti remunerativi.
Si prevede inoltre di triplicare l’energia eolica, quella idrica e quella solare e, al tempo stesso, di conseguire un risparmio energetico del 4%.
Al proposito di una graduale fuoriuscita dai combustibili fossili, di cui è riconosciuta la funzione climalterante, non fa tuttavia riscontro la definizione di impegni vincolanti per ogni singolo Stato.
Il documento finale sembra poi riporre una fiducia eccessiva nelle tecnologie di cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica, che dovrebbero essere considerate come integrative e non sostitutive dell’obiettivo di ridurre le emissioni climalteranti.
Alliancesud rileva come positivo il fatto che tutti gli Stati vengano chiamati per la prima volta a contribuire all’abbandono dei combistibili fossili, ma lamenta che a questo non si accompagnino ancora una volta impegni finanziari adeguati che consentano realmente ai Paesi del cosiddetto Sud globale di procedere in questa direzione. Anche le sovvenzioni per far fronte all’adattamento al cambiamento climatico, le cui conseguenze colpiscono già da ora in modo rilevante i Paesi più poveri, continuano a risultare insufficienti.
Un’ultima osservazione riguarda il fatto che alla Conferenza di Dubai hanno partecipato 90.000 persone, un numero francamente abnorme e i cui spostamenti in aereo non sono un buon esempio di difesa dell’ambiente. Rilevante soprattutto la presenza di ben 2.456 lobbisti dei combustibili fossili, evidentemente preoccupati che i loro interessi potessero essere messi drasticamente in discussione e che hanno fatto sentire la loro influenza in tutte le fasi dei lavori.
Da osservare inoltre che durante lo svolgimento dei lavori non è stato possibile esprimere forme significative di dissenso o comunque di democratica pressione politica su chi in definitiva decide le sorti del Pianeta; oltre alle limitazioni imposte dal dispotico regime ospitante hanno inciso anche i costi del viaggio e la sfiducia di molti potenziali manifestanti verso una Conferenza presieduta dal sultano Al Jaber, noto lobbista del petrolio.
Si può dunque concludere che la Cop 28 ha segnato importanti progressi su alcune fondamentali enunciazioni di principio riguardo alle cause antropiche del riscaldamento climatico; esse dovrebbero costituire dei punti di forza per combattere ogni forma di negazionismo in materia climatica; si tratta ora di passare dalle parole ai fatti e questo sarà possibile solo grazie all’azione decisa e coordinata dei movimenti ambientalisti di tutto il mondo. Tali movimenti, per essere credibili e vincenti, dovranno rendere più incisiva la loro azione, sia a livello dei singoli Paesi che sul piano internazionale in difesa della giustizia climatica. I costi della transizione energetica e dell’abbandono dei combustibili fossili insomma non devono essere caricati sulle spalle dei ceti popolari che sono oltretutto meno responsabili della crisi climatica.