Dal gioco allo smartphone: perché è un problema

Gli smartphone fanno male. E vanno tenuti lontano dai bambini. Siano banditi dalle scuole. Lo scrive, lo chiede, supportato da dati, Jonathan Haidt, che è professore alla New York University e collabora spesso con la psicologa statunitense Jean Twenge, una delle prime ad attribuire l’aumento delle malattie mentali nella generazione Z (nati tra la metà e la fine degli anni ’90) agli smartphone.

“Dal gioco allo smartphone” è stata una rovina: potremmo riassumere così il nocciolo dell’ultimo saggio di Haidt, The Anxious Generation. Che inizia lasciando parlare i dati: fin dalle primissime pagine del testo. Dall’inizio degli anni 2010, assistiamo a un costante e forte aumento dei tassi di malattie mentali tra gli adolescenti. Tra gli studenti universitari statunitensi, ad esempio, le diagnosi di depressione e ansia sono più che raddoppiate tra il 2010 e il 2018. Nel decennio fino al 2020 il numero di accessi al pronto soccorso per atti di autolesionismo è aumentato del 188% tra le ragazze adolescenti negli Stati Uniti e del 48% tra i ragazzi. Il tasso di suicidio tra gli adolescenti più giovani negli States è aumentato del 167% tra le ragazze e del 91% tra i ragazzi, ma un trend simile è osservabile nel Regno Unito e in molti altri paesi occidentali. Stiamo parlando degli anni della massima diffusione degli smartphone. Questi, insieme all’avvento dei social media e dei videogiochi online a carattere compulsivo, stanno portando a quello che Haidt definisce “la Grande Riprogrammazione dell’Infanzia”: con sempre meno tempo per socializzare di persona, lasciati ore e ore incollati agli schermi, i giovani cadono nel vortice dei social media, che distrugge l’autostima (soprattutto nel caso delle ragazze) e sono presi, i ragazzi, nel vortice della pornografia. 

Questi dati sono confermati anche dal Millennium Cohort, uno studio britannico che ha monitorato 19.000 bambini nati tra il 2000 e il 2002 e ha evidenziato come, soprattutto tra le ragazze, i livelli di depressione crescevano proporzionalmente al tempo trascorso sui social media. Chi vi passava oltre cinque ore al giorno aveva un rischio di depressione triplo rispetto a chi non li utilizzava affatto. Questo dato, preso singolarmente, naturalmente non prova che i social causino depressione (potrebbe essere che le persone già depresse passino più tempo online), ma ci sono studi che puntano in questa direzione, come ricorda Haidt. Quando Facebook era accessibile solo a un ristretto numero di università, uno studio confrontò la salute mentale degli studenti con accesso al social con quella di studenti senza social media, riscontrando un peggioramento nei primi. Ulteriori cinque studi hanno inoltre rilevato una correlazione tra la diffusione di internet ad alta velocità e l’aumento dei disturbi mentali.

Di contro a quanti sostengono che i giovani di oggi abbiano “semplicemente” più motivi per sentirsi ansiosi e depressi, tra cambiamenti climatici,  conflitti globali e crisi politiche permanenti, The Anxious Generation abbraccia una posizione antitetica: Haidt osserva che anche le generazioni passate sono cresciute in contesti segnati da guerre e instabilità globale, eppure tali crisi collettive raramente hanno generato problemi psicologici diffusi a livello individuale — forse perché tendevano a rafforzare il senso di solidarietà e di scopo comune. Oggi, invece, le evidenze che collegano l’aumento delle malattie mentali all’uso di smartphone e social media sono sempre più consistenti. Ma perché un’infanzia “centrata sullo smartphone” produce questi effetti? Gli smartphone ci rendono “perennemente altrove”, lontani dagli ambienti vicini. Gli adolescenti, che secondo un rapporto Pew del 2022 per il 46% sono online “quasi costantemente”, sono al contempo i più assidui utilizzatori e i più vulnerabili, anche perché l’adolescenza è una fase di rapido sviluppo sociale ed emotivo. Gli smartphone sono insomma “bloccatori di esperienze”: ore passate a inseguire “like”, seguire influencer superficiali e sostituire le relazioni autentiche con interazioni digitali hanno rimpiazzato attività realmente arricchenti. I social media alimentano un confronto sociale continuo, spesso spietato e crudele. D’altra parte, noi adulti di mezza età non proviamo un po’ di sollievo pensando di essere cresciuti senza smartphone, quando l’adolescenza era già abbastanza difficile senza il rischio di umiliazioni online o la possibilità di misurare, attraverso follower e interazioni, il proprio presunto “valore” sociale?

C’è un’altra parte interessante del saggio di Haidt e riguarda proprio noi quarantenni nel nostro ruolo di madri e padri. I genitori di oggi — argomenta lo studioso e generalizzando un po’ ma forse neanche tanto — sono diventati iperprotettivi nel mondo offline, posticipando l’età in cui i bambini vengono ritenuti sicuri per giocare senza supervisione o svolgere piccole commissioni da soli, ma allo stesso tempo lasciano enormi libertà ai figli e alle figlie nel mondo online, pieno di pericoli, dal bullismo e molestie digitali alla possibilità di imbattersi in contenuti dannosi, dalla violenza esplicita a siti che glorificano il suicidio e l’autolesionismo. Insomma, la teoria presentata in The Anxious Generation è che i bambini siano “antifragili”, e quando invece vengono eccessivamente protetti dal mondo reale diventano difensivi e insicuri. Per Haidt, insomma, i bambini dovrebbero avere maggiore libertà di giocare senza supervisione nei giardini, all’aperto, con i compagni dal vivo.

Ma i genitori da soli non bastano, nel mondo per come è fatto oggi, è ovvio. E infatti Haidt non manca di chiedere un maggior impegno da parte delle istituzioni perché si discuta per alzare, ad esempio, l’ “maggiore età” su internet a 16 anni. The Anxious Generation non è una lettura leggera e estiva ma un saggio che pone domande importanti e non più rimandabili, che coinvolge i nuclei familiari, la collettività, le scuole, le associazioni, la politica e le istituzioni. Un saggio che, anche per chi non dovesse essere d’accordo con le tesi che contiene, può certamente servire a aprire una discussione sana (anche etica) sull’impatto che la tecnologia ha sul nostro benessere e nel nostro quotidiano.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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