Diciotto anni da expat: cosa rimane della mia italianità?

Ogni mattina, da oltre dieci anni, la mia colazione prevede un’abbondante porzione di porridge, una di zuppa a base di fiocchi d’avena e latte, emblema della colazione anglosassone. L’ho provata la prima volta dai miei suoceri, che abitano nel nord dell’Inghilterra, dove il camino resta sempre acceso, anche in pieno agosto. In inverno mi scalda, il porridge; eppure continuo a mangiarlo anche in estate. È diventato un rituale, la mia personale, seppur discutibile, declinazione della felicità mattutina. Ai miei figli ho servito per anni Olma Wurst (la salsiccia tipica della zona di San Gallo, in Svizzera) con Rösti (una sorta di disco dorato croccante fatto con patate grattugiate) e nemmeno io ho mai disegnato questo piatto. In Belgio ogni tanto ci concediamo, con piacere, le moules et frites, ovvero cozze accompagnate da patatine fritte. La pasta la mangiamo, e ci piace, ma se in tavola non c’è, ce ne facciamo una ragione…

Perché racconto di queste mie preferenze e “tendenze” culinarie, che possono essere più o meno apprezzate?

Perché credo che rappresentino bene, e nel concreto, un’esperienza chiave che accumuna chi sceglie di emigrare e che ha a che fare con il verbo “provare” o, più precisamente, “mettersi alla prova” – non solo nel mangiare altri cibi ma, più genericamente, nel confrontarsi con altre usanze; nell’apprezzare (o per lo meno accettare) costumi nuovi, sapori, tradizioni e stili di vita. Capita, è ovvio, che anch’io senta forte il desiderio di consumare un buon piatto di pasta, al pari di molti miei parenti e amici che dall’Italia non si sono mai mossi. Tuttavia, lontana dal Bel Paese sono stata messa nella condizione di rivedere parte delle mie abitudini, di guardare le miei radici da un’altra angolatura; di aprirmi al nuovo e ridisegnare contorni che erano stati familiari e definirli in modo diverso. Per il quieto vivere. Per rispetto e per ammirazione dell’altro. Per forze maggiori: il paesaggio in cui mi sono trovata, i legami che ho stretto, l’ambiente circostante. Talvolta ho provato a chiudermi e difendere le mie usanze: però il pane in Inghilterra esiste principalmente in forma di toast, allora come che si fa? Non lo si mangia? A Zurigo se ordini “un caffè” ti portano, non di rado, quello allungato con acqua se non si precisa che si desidera un ‘espresso’; con il tempo ci si fa l’abitudine e si beve quel che viene servito. A Bruxelles le partite di calcio dei bambini si giocano anche con la pioggia e a 10 gradi sotto lo zero: dopo un primo momento di panico italiano, mi sono adattata; ora mio figlio gioca con la “maglietta della salute” termica e come fanno i suoi coetanei. Per ora non è ancora congelato.

Era il 2005 quando ho lasciato l’Italia e nel mio diciottesimo anno da expat, mi ritrovo a domandarmi quanto siano (ancora) preziose, nel definire chi sono io, le specificità italiane, quelle riconosciuteci “dal mondo” (penso a cibo, alla moda, insomma alla bella vita). Ad essere sincera, la mia italianità si sta facendo meno definita; è destinata a soccombere? A volte credo che la risposta sia affermativa – e se così fosse, ciò sarebbe necessariamente un male?

Altre volte, invece, la mia italianità mi si palesa davanti, senza che io l’abbia nemmeno cercata. La ritrovo in “atteggiamenti”, come quel mio fare tante premesse durante un discorso prima di “arrivare al dunque” – cosa che lascia un poco sbigottiti gli amici anglofoni che sono molto più sintetici e diretti; ritrovo l’italianità anche nelle parole dei miei figli, quando li chiamo e loro rispondono con “Eh???? Dimmi!” (a voce così alta che chi ci ascolta, e non è Italiano, potrebbe pensare che stiamo litigando..). Ecco: forse l’italianità (nella sua forma più intima e che, anche involontariamente, trasmetto a chi mi sta attorno) sopravviverà, nei modi di dire, che sottintendono un fare, un mettersi in relazione con gli altri – e con il mondo circostante – che non ho ancora ritrovato in nessuna delle altre “culture” che mi circondano?

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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