Scrivo, da tempo, per la carta stampata, parlo alla radio; ho co-creato podcast. Ma non amo mettermi in mostra in prima persona, insomma, pur dopo anni di gavetta non mi piace mai “metterci la faccia”. Sui social media evito di condividere storie e foto personali o dettagli intimi. Preferisco nascondermi dietro le parole, che da sole sanno rivelare e proteggere al tempo stesso.
Qualche mese fa, mi sono trovata a osservare una collega che sembrava fare tutto l’opposto di me. Era sul punto di completare un progetto importante—una pubblicazione che rappresentava anni di impegno—e, man mano che si avvicinava l’uscita, la sua presenza online diventava sempre più visibile. Il suo volto sorridente compariva ovunque. Scorrendo i post mi sorprendevo a pensare: Come fa a riuscirci? Perché io non riesco a mostrarmi nello stesso modo?
Quando il suo lavoro è stato finalmente pubblicato, ha ricevuto l’attenzione che meritava. È stata invitata “sotto i riflettori”, e la sua immagine pubblica si è intrecciata strettamente al meritato successo. Poi, però, è accaduto qualcosa di inatteso. Al mio messaggio in cui mi complimentavo con lei, le sue parole mi hanno spiazzata: mi ringraziava, ma confessava anche lo stress che stava vivendo. La pressione della performance e del giudizio altrui. Dietro quel sorriso, era, è, “come me”?
Quello scambio mi ha colpita: mi ha ricordato di qualcosa che è più “grande di entrambe”, una realtà di cui siamo tutte (e tutti) consapevoli anche se ce ne dimentichiamo troppo spesso. O ignoriamo i dati. Ovvero di come per le donne in particolare, il successo raramente arriva senza il peso della performance. Non basta fare bene il proprio lavoro: bisogna anche incarnarlo, mostrarlo, confezionarlo in un’immagine curata, sicura di sé, tra sorrisi e battute pronte.
Il tutto è reso difficile dal fatto che spesso questo peso dell’immagine si somma all’abitudine radicata della nostra società di sminuire il potere delle donne—sul lavoro, in famiglia, nell’istruzione e nella vita pubblica. Nei paesi in via di sviluppo molte donne lottano ancora per accedere all’istruzione, all’assistenza sanitaria e alle opportunità economiche. Nelle nazioni più ricche, le disuguaglianze strutturali assumono forme più sottili ma altrettanto persistenti: divari salariali, aspettative squilibrate rispetto al ruolo familiare e di cura, e la pressione costante a conciliare ambizione professionale e responsabilità domestiche. In ogni contesto, si chiede alle donne di esibirsi senza sbavature—e di farlo con un sorriso.
Il cambiamento è possibile ma la strada ardua e lunga. Comunque da qualche parte bisogna pure iniziare. Ad esempio riconoscendo il lavoro invisibile femminile che per troppo tempo è stato ignorato. Quello di cura, la gestione domestica e il sostegno emotivo che tengono insieme famiglie e comunità vengono spesso considerati “naturali” per le donne, ma in realtà sono fondamentali per il funzionamento della società. E poi i luoghi di lavoro: servono congedi parentali per entrambi i genitori, sostegni per l’infanzia e orari flessibili. Non possono essere privilegi. Senza, non c’è uguaglianza.
C’è tanto lavoro da fare anche sul piano del cambiamento culturale: permettere alle donne di raccontare la loro vita nella sua interezza, senza l’aspettativa della perfezione. Un po’ ovunque stanno nascendo reti di mentorship e solidarietà tra donne, ricercatrici, colleghe, ma sono ancora poco conosciute in diverse parti del mondo. Eppure esse possono fare la differenza, costruire forza collettiva, sostituendo l’isolamento con il sostegno reciproco. Certo, poi mancano riforme sistemiche—parità salariale, accesso all’istruzione, rappresentanza politica: non si può lasciare tutto alla sola resilienza individuale, nella speranza, ad esempio, che da “underdog” si arrivi in alto. Capita a poche. Per le altre, rimane la solitudine di portare da sole il peso del cambiamento.
Ripenso al sorriso della collega che mi ha inviato quel messaggio inaspettato, e lo vedo ora sotto una luce nuova. Una luce che forse non appartiene a tutte, forse nemmeno a lei (sto fraintendendo le sue parole?), ma che vale comunque per me: dietro a ogni foto curata o un profilo professionale, spesso si cela una donna che porta sulle spalle pressioni e aspettative “di genere”. Sfide, queste, che non sono invisibili, se solo impariamo a guardare davvero. Notarle, e lavorare per cambiarle, significa costruire una società capace di valorizzare le persone non per l’immagine che proiettano, ma per la profondità di ciò che contribuiscono davvero.