Il pensiero che più mi assilla da quando sono diventata madre è chiedermi costantemente quanta responsabilità risieda nel mio operato educativo per determinare le persone adulte che diventeranno un giorno i miei figli. Quanto la mia effettiva disponibilità all’ascolto li renderà adulti in grado di ascoltare gli altri? Quanto la mia apertura al riconoscimento e alla legittimazione di qualunque emozione possa renderli persone più empatiche verso le emozioni degli altri? Ma soprattutto mi chiedo quasi ogni giorno quanta responsabilità risieda nel mio esempio.
Sono pensieri comuni alla maggior parte dei genitori, non mi reputo più speciale di nessuno. Ci si sente investiti di una grande missione che ci appare al tempo stesso anche una grossa spada di Damocle che ci fa mettere costantemente in discussione, andando ad alimentare il mercato di tutta quella letteratura pedagogica di cui ormai sembriamo non saperne più fare a meno.
Ci si ride sopra, ci si prende in giro nei giorni buoni e poi si torna a testa bassa a fare del proprio meglio, cercando di supportare senza essere invasivi, di ascoltare senza imboccare le risposte, di proteggere senza interferire troppo, come se avessimo a che fare con oggetti fragilissimi e preziosi, come steli di una pianta rara, che va sostenuta nella sua crescita, osservata giornalmente, ma senza mai toccarla troppo per non rischiare di deviare il suo sviluppo naturale.
Poi leggo notizie come questa e torna a pulsare con forza quella domanda: dove finisce la responsabilità di un genitore sulle azioni del proprio figlio?
I genitori di Ethan Crumbley, il ragazzo che il 30 novembre del 2021 all’età di 15 anni sparò e uccise quattro suoi compagni di classe, ferendone altri sette in una scuola del Michigan, sono stati condannati a pene tra i dieci e i quindici anni di carcere per gli omicidi compiuti dal figlio.
Il ragazzo era stato processato ai tempi come un adulto e condannato all’ergastolo per omicidio di primo grado senza condizionale.
Alla coppia di genitori furono contestati diversi fatti, primo fra tutti l’aver regalato al ragazzo, per il suo compleanno, la pistola con cui ha compiuto la strage.
È la prima volta negli Stati Uniti che viene applicata una condanna tanto severa nei confronti dei genitori di un assassino. Le ragioni di questa decisione risiedono nei numerosi appelli, messaggi e avvertimenti che la scuola aveva tentato di trasmettere ai genitori di Ethan e che sono sempre stati ignorati dalla coppia.
I coniugi erano stati convocati dal preside, dopo varie segnalazioni dei docenti, l’ultima arrivata proprio quella mattina da un insegnante che aveva trovato Ethan intento a disegnare una pistola sul compito di geometria accanto a un corpo crivellato dai proiettili e frasi molto inquietanti. I Crumbley avevano liquidato la faccenda come una sciocchezza e se ne erano andati dicendo che dovevano tornare al lavoro. Qualche ora dopo Ethan aveva tirato fuori la pistola che i genitori gli avevano regalato qualche settimana prima e ha cominciato a sparare.
La condanna si basa sul principio che i due genitori non hanno esercitato sul figlio quello che la legge definisce “supervisione ordinaria”, ossia sono stati negligenti. La negligenza di per sé non è un reato ma se viene giudicata grave può portare a condanne molto serie, come in questo caso per omicidio colposo.
Sono andata a cercare dei video sul processo, in particolare di Ethan e quello che ho visto mi ha spezzato il cuore: un ragazzino impacciato, nell’uniforme arancione del penitenziario, con lo sguardo costantemente basso, un disagio nella postura e un’espressione così spenta sul volto da sembrare un passerotto infreddolito, appollaiato su un ramo nel tentativo di resistere alla tempesta. Un bambinone dagli occhi tristi, nel pieno della trasformazione adolescenziale.
Sia chiaro, non sto vittimizzando un assassino volontario di quattro coetanei, sto semplicemente osservando una persona in evidente stato di disagio psichico, un disagio già riconosciuto dal personale scolastico prima che si compisse l’irreparabile.
Premettendo che per quanto si possano trovare insegnanti incredibilmente sensibili in qualunque contesto scolastico, in grado di intercettare problematiche psico-fisiche nei propri studenti con cui confrontarsi poi con le famiglie, è impensabile che quegli stessi segnali non siano già noti ai genitori stessi. Una scuola in allarme per i comportamenti inquietanti di un ragazzo, significa molti e marcati elementi a sostegno di questa tesi.
Cosa ha impedito a questa madre e a questo padre di prenderne atto? La paura? La vergogna? Lo escludo, dal momento che non solo si sono rifiutati di riconoscere i suoi problemi di depressione e tendenze deliranti verso la violenza, ma li hanno incentivati, mettendo in mano al figlio minorenne un’arma.
Questa è violenza: non rispondere a evidenti richieste di aiuto è violenza, lasciare solo il proprio figlio dentro un escalation di pensieri pericolosi e deliranti, definendoli sciocchezze è violenza, condannarlo all’ergastolo per aver sparato con la pistola che loro stessi gli hanno regalato è violenza.
Provo a immaginare quanta solitudine deve aver provato questo ragazzo e quanta paura, prima di impugnare il regalo di chi doveva proteggerlo, anche e soprattutto da se stesso, e sparare disperatamente per far finire quella tortura di pensieri ossessivi che gli pulsavano nel cervello e penso che processarlo come un adulto, dandogli il massimo della pena senza condizionale sia stata la più ingiusta delle tre condanne.
Non so ancora rispondere alla domanda su dove finisce la responsabilità di un genitore, ma so per certo dove comincia. Dagli occhi dei propri figli.