Tempo di esami, per i miei figli, che alla scuola belga ogni fine anno scolastico sono testati sul sapere che hanno acquisito durante tutto l’anno, dalla letteratura alla scienza, dalla storia alle lingue straniere, dalla geografia all’arte. Hanno mal di pancia, i miei figli, ogni mattina e ogni sera. E io con loro, in questi giorni. Sono tesi. E anche io.
Mai come in questi momenti, sento il bisogno di abbracciarli. Li stringo a me, loro che manca poco e sono grandi quanto me. Lo faccio perchè mi va di farlo. E perchè lo dice la scienza….
«Il contatto fisico – il tocco o, in inglese, il touch con la mano – è un metodo efficace per ridurre l’ansia e il dolore emotivo e per l’attivazione delle aree cerebrali legate allo stress sociale», mi spiega la ricercatrice e docente in psicologia e neuroscienze sociali all’USI, Rosalba Morese, prima coautrice di uno studio pubblicato su SCAN (Social Cognitive and Affective Neuroscience) che ha confrontato i benefici del contatto fisico con l’impatto della messaggistica di testo. «Gli esperimenti – continua Morese – hanno coinvolto persone che, dopo aver vissuto un’esperienza di esclusione sociale, venivano supportate attraverso due modalità: il contatto fisico (una stretta di mano per tre minuti) o la lettura di messaggi di testo contenenti spiegazioni consolatorie del perché fosse avvenuta l’esclusione. I risultati hanno rivelato che il contatto fisico ha un effetto calmante significativo: quando la persona riceve un supporto fisico, l’attivazione delle aree cerebrali associate al dolore emotivo si riduce notevolmente. Questo significa che, se una persona è confortata attraverso un abbraccio o una stretta di mano, quando si ritrova nella stessa situazione di esclusione, sperimenta meno attivazione delle aree cerebrali legate al dolore. Al contrario, i messaggi di testo, sebbene informativi e consolatori, hanno mostrato un effetto opposto. La lettura di tali messaggi porta a un aumento dell’attivazione delle aree cerebrali quando la persona si ritrova nuovamente in una situazione simile.»
Questo studio di Morese è valso all’USI la prima edizione del Social Research Prize, un’opera d’arte che dal 2020 viene assegnata dall’associazione Ciao Table (impegna a promuovere i processi di socializzazione come fattore di protezione della salute psicofisica) a una sede universitia di appartenenza di una ricercatrice che si è distinta per ricerche nell’ambito proprio dell’inclusione sociale (valutate in base all’impatto sul territorio, a livello scientifico e per numero di pubblicazioni).
Per il 2023 è toccato all’Università di Cambridge e alla prof.ssa di Psicologia e Neuroscienze Cognitive, Sarah Blakemore, che ha rivoluzionato la nostra comprensione del cervello adolescente e il mio modo da mamma di relazionarmi con i miei figli…
Tradizionalmente, l’adolescenza è stata vista come un periodo tumultuoso dominato dagli ormoni, con comportamenti spesso attribuiti a una mancanza di intenzionalità o a pura ribellione. Tuttavia, le ricerche di Blackmore hanno dimostrato che il cervello continua a svilupparsi con l’adolescenza e persino fino ai venti e trent’anni in alcune aree. La materia bianca aumenta, mentre la materia grigia diminuisce. Si pensa che questi cambiamenti siano causati da importanti processi neuroevolutivi che permettono al cervello di essere modellato e influenzato dall’ambiente. Insomma, oggi sappiamo che questa immaturità neurobiologica spiega, ad esempio, perché gli adolescenti tendono a conformarsi ai comportamenti del gruppo, anche quando questi sono rischiosi.
«Gli adolescenti – afferma la professoressa nel suo libro Inventing Ourselves: The Secret Life of the Teenage Brain – non sono stupidi: razionalmente, comprendono già i rischi. Ma nel momento cruciale (della scelta, n.d.r.), molti adolescenti si preoccupano molto di più di ciò che pensa il loro gruppo di amici rispetto ai potenziali rischi per la salute delle loro scelte.
Spesso, le loro decisioni sono guidate dalla paura di essere esclusi dai loro amici, piuttosto che da una considerazione imparziale delle conseguenze.»
Insomma, grazie agli studi di Sarah Blackmore, come sottolinea Morese, «abbiamo un po’ abbattuto quegli stereotipi su quello che è la mente dell’adolescente e sappiamo che in realtà è una mente brillante
la quale però ha dei funzionamenti diversi e in maturazione.» Una mente alla quale un abbraccio non può fare che bene…