di Serena Quagliaroli
Nell’estate del 2019, il Musée Rath di Ginevra ha ospitato un’esposizione consacrata a un soggetto enigmatico: il silenzio. Richiamandosi al motto antico che fa della pittura una “poesia muta”, i curatori hanno inteso mettere alla prova le differenti forme attraverso cui l’arte visiva, dal XV secolo ad oggi, ha risposto all’intrigante sfida di rappresentare il silenzio.
Un dipinto, di per sé, è un medium silenzioso, e gli autori antichi, rinascimentali e moderni, hanno lungamente ragionato sulla definizione della pittura come poesia muta, e della poesia come pittura parlante. Benchè priva del suono e della parola, una tavola, una tela, ma anche un affresco, una scultura o un’incisione, descrivono, raccontano, mettono in scena.
Come prende corpo il silenzio sulla tavola, nel marmo, sul muro, o più genericamente come si concretizza visivamente un soggetto così ineffabile?
Nella storia delle arti visive, i mezzi sono sempre stati multipli, in dipendenza dalla pluralità delle discipline e delle tecniche, configurandosi in relazione al soggetto trattato, al tema, all’azione, ai motivi e ai luoghi da rappresentare. In questa variegata molteplicità di soluzioni, si può dire, in maniera quasi paradossale, che esiste un linguaggio, una grammatica, un vocabolario del silenzio?
Ci sono soggetti nati per esprimerlo, come le figure allegoriche descritte da Cesare Ripa nella sua Iconologia del 1593, contraddistinte principalmente da bende o dal singolo dito posto a chiudere la bocca, e ci sono personaggi tradizionalmente associati ad esso, o meglio, all’attitudine contemplativa che ne consegue, come San Girolamo o Maria Maddalena nel deserto. In entrambi i casi le opere sono concepite non tanto per rappresentare quanto per suscitare il silenzio e il raccoglimento dello spettatore. La silenziosa inazione però sfocia talvolta in sentimento di accidia o di melancolia, una condizione in cui l’interiorità prende il sopravvento, ponendo l’uomo di fronte alla solitudine, all’incertezza, alla morte.
La negazione della presenza umana, per quanto suggerita da ambientazioni antropizzate, è un efficace mezzo di rappresentazione, così come avviene nelle nature morte (o stilleven, “vite silenziose”), che celebrano la vita e i prodotti dell’attività umana calcando proprio sull’intrinseco carattere transitorio ed effimero.
Dallo spazio intimo delle tavole e degli interni domestici si passa a quello sterminato dei paesaggi, dove l’illimitato vagare dello sguardo genera l’impressione di scontrarsi con l’immensità atona di uno spazio naturale che l’umanità sembra condannata a contemplare solo a distanza, struggendosi nella malinconia di non potersi fondere con esso. Concorrono ad evocare il silenzio anche i colori.
Il pittore Vasilij Kandinskij nel suo Lo spirituale nell’arte, studiando le vibrazioni auditive innescate dai colori nello spettatore, analizzava i casi particolari dei bianchi, dei neri e dei grigi, cromie che si legano all’immobilità e al silenzio. Il bianco è non suono, l’assenza di rumori che precede la nascita, il nero è il silenzio della morte, da intendersi come i due estremi dello spazio d’azione del suono veicolato dagli altri colori: il bianco tende a dissolvere le risonanze, il nero ad accentuarle sino a raggiungere l’inaudibilità.
Il colore che sfuma suggerisce la distanza dall’evento portando l’udito a credere di non poter giungere là dove arriva, seppur confusa, la vista. Lo sfaldamento, la dissoluzione della materialità del colore e l’estensione dello spazio si pongono come limite ai sensi e obbligano a una muta contemplazione.
Nelle figure umane rappresentate di spalle l’opera mantiene per sé il suo segreto, invitandoci solo a supporre quale siano le fattezze e quale l’atteggiamento e l’azione dei soggetti rappresentati. L’omissione, sia che si tratti di un occultamento visivo che del posizionamento di un elemento fuori dal campo visivo della rappresentazione, diviene dissimulazione e con essa senso d’inaccessibilità: qualche cosa non è mostrato, qualche cosa manca, qualche cosa resta impenetrabile, rinviando a un senso altro che è nascosto, segreto, indicibile.
Scegliendo di rappresentare uno – o più – di questi silenzi, l’opera comunica il suo enigma allo spettatore.
Didascalia della foto:
Luigi Rossi (Cassarate 1853 – Tesserete 1923), Sogni di giovinezza, 1894 ca., Casa d’Aste Wannenes, Genova