Quando si parla di salute, tutti prima o poi ci troviamo di fronte a domande cruciali. Che tipo di pazienti vogliamo essere? Persone autonome, capaci di partecipare alle decisioni che riguardano la nostra vita, oppure individui che si affidano completamente al sapere del medico, rinunciando a ogni voce in capitolo? E che tipo di medici desideriamo incontrare? Tecnici impeccabili, magari freddi ma competenti? O professionisti capaci di ascoltare, di parlare con empatia, di comprendere la sofferenza e di condividerla? Sono domande che non riguardano solo la pratica clinica, ma toccano temi profondi: la natura della scienza, il senso del vivere e del morire, i diritti del malato, i limiti della medicina. Sono domande per i medici così come per i pazienti.
A quasi 400 anni dalla pubblicazione del “Discorso sul metodo” del filosofo francese Renato Cartesio che separava mente (la res cogitans) e corpo (la res extensa), influenzando la medicina che ne è seguita e che ha per lungo tempo separato ciò che accade nella mente da ciò che accade nel corpo, oggi qualcosa sta finalmente cambiando. Sta divenendo infatti sempre più centrale un “altro” approccio alla salute, che mette il benessere di una persona in relazione a diversi fattori, biologici, psicologici e sociali. Questa nuova consapevolezza cambia profondamente il modo di intendere la cura. Non si tratta solo di prescrivere farmaci o fare diagnosi. Il medico oggi deve anche saper comunicare, ovvero mettere “in comune”: con il tono della voce, lo sguardo, le parole che sceglie. Non solo. Centrale è anche l’ascolto: donare vicinanza ed empatia al paziente significa riconoscere il valore del suo racconto biografico che può diventare parte attiva della terapia. Tutto ciò è abbastanza chiaro dal punto di vista teoretico e ideale e nelle evidenze di diversi studi scientifici. Ma concretamente, sono “capaci”, i medici, di ascoltare? Sono “formati” ad ascoltare e a farlo “eticamente”? E come possono ascoltare e poi agire, quando si confrontano con interventi delicati che rivendicano l’autonomia dei pazienti, richiedono il consenso informato, riguardano temi divisi come l’eutanasia, obiezione di coscienza o la sperimentazione clinica?
A riflettere su questi temi è Giorgio Macellari, medico senologo e autore del saggio “Etica per il medico giusto” (Il Pensiero Scientifico Editore), pubblicato quasi dieci anni dopo il suo lavoro con Umberto Veronesi, “Manuale di etica per il giovane medico”. Il punto di partenza è una domanda semplice ma radicale: che ruolo ricopre oggi l’etica nel lavoro del medico?
La risposta di Macellari è chiara: il medico non può essere solo un tecnico. Non è solo chi opera, diagnostica, prescrive. È — o dovrebbe essere — anche colui che ascolta, accoglie, comunica con gentilezza, rispetta il paziente come persona. Un professionista, insomma, capace di non abusare mai del proprio potere, ma di usare le proprie competenze scientifiche con responsabilità e umanità. Senza questa dimensione relazionale, la medicina perde la sua anima. «Curare — afferma Macellari — è un’arte relazionale, una responsabilità che ha al centro la vita e la dignità dell’altro»; è una medicina che non guarda solo alla patologia, ma alla persona nella sua interezza: «Ogni paziente è una biografia, non una patologia».
Ecco perché la formazione medica va ripensata. «L’università — osserva Macellari — insegna a leggere lastre, a operare, a conoscere la farmacologia. Ma non insegna come essere medici». La formazione etica spesso è lasciata al caso, affidata all’esempio dei “maestri”, che però scarseggiano. «La figura di Veronesi — continua Macellari — rappresenta un modello imprescindibile nel panorama medico-umanistico: la sua eredità sottolinea che la medicina è una disciplina fondata sull’integrazione tra competenza scientifica e virtù etiche, elemento indispensabile per mantenere l’essenza stessa della professione». Diversamente, si rischia di creare professionisti eccellenti sul piano tecnico, ma privi degli strumenti per affrontare i dilemmi morali della professione.
In questa prospettiva è il concetto stesso di salute che merita di essere ripensato. Non è solo “assenza di malattia”, come recita la definizione dell’OMS, ma una condizione dinamica, personale, legata alla biografia dell’individuo. La vera sfida della medicina moderna, secondo Macellari, è proprio questa: realizzare una medicina “della persona”, che consideri non solo il corpo, ma anche l’anima, le emozioni, le paure, le speranze. Certo, i medici oggi hanno pochissimo tempo: pochi minuti per visitare, ascoltare, decidere. Ma anche in questo scenario, l’ideale resta fondamentale. «L’utopia del medico giusto — spiega Macellari — non è un lusso, ma un obiettivo verso cui tendere».
Servono però anche leggi chiare, un quadro normativo che aiuti a orientarsi tra scienza, morale e diritti individuali. Il medico deve offrire la propria competenza e la propria coscienza, ma non può sostituirsi allo Stato. A questo proposito, il saggio di Macellari dedica ampio spazio alle attuali regolamentazioni italiane e del contesto giuridico-normativo europeo su temi cruciali e delicati come le cure palliative, il suicidio assistito e le direttive sul fine vita. Ma lo fa con un approccio rigoroso e insieme aperto: queste non sono presentate come questioni già risolte, bensì come nodi complessi da affrontare con consapevolezza, competenza e senso etico. L’intento non è chiudere il discorso, ma aprirlo: stimolare un confronto serio e informato, che coinvolga non solo i professionisti della salute, ma l’intera società. «Per quel che riguarda l’Odc in medicina, forse anche lì bisognerebbe togliere dal suo lessico l’arcaica formula “secondo scienza e coscienza” — scrive Macellari nel capitolo dedicato all’obiezione di coscienza — privilegiando il richiamo alle linee-guida basate sulle prove e ai doveri che configurano il nostro mestiere […] Non è una proposta semplice, perché si scontra con una tradizione secolare […] Ma può diventare un buon punto di partenza per trasferire il dibattito dal piano soggettivo-divisivo delle intenzioni di coscienza a quello, più costruttivo, del confronto scientifico-razionale». Un livello di discussione, quest’ultimo da adottare, anche quando si tratta di un altro tema, quello della ricerca clinica, in particolare quella sperimentale, che in Italia, soprattutto in fase precoce, è in calo. Ed è un problema dal momento che, come sottolinea Macellari, dove si fa ricerca si cura meglio. Oggi le regole etiche che guidano la sperimentazione sono solide. Quello che manca, invece, è l’investimento — oltre che una comunicazione corretta che contrasti la narrativa secondo la quale sottoporsi a test clinici significa essere “cavie”. Servono insomma — in questo caso specifico così come in tutti i dibattiti etici medici — più risorse, più formazione, più coinvolgimento dei medici di base e degli ospedalieri, maggiore informazione per i cittadini.
In ultima analisi, “Etica per il medico giusto” — che pur dichiara in apertura di rivolgersi ai professionisti della salute — è una riflessione aperta sulla medicina che vogliamo: più competente, ma anche più umana. E radicata nell’etica. Perché, in fondo, la cura non è un po’ un incontro tra due fragilità, quella di chi chiede aiuto e quella di chi, con scienza e coscienza, prova a rispondere?

riferimento farmacologico Mario Negri