San Gallo. Esco dalla stazione e mi guardo attorno. Gli edifici appaiono solo in parte come li ricordavo. Molti sono stati rifatti. Alcuni spazi hanno sostituiti altri. Dove c’era un ristorante tailandese, che guardava direttamente sui binari e era tra le mie mete preferite per un pranzo veloce, ora ne ha trovato posto uno che prepara kebab. Il Kiosk, invece, all’angolo, quello no. È ancora lì, con frutta fresca e gipfel. Ritrovo anche il “solito” bar, nemmeno molto bello ma in posizione conveniente: era lì che spesso, dopo una giornata in università, mi fermavo per un momento conviviale con i colleghi. Mi guardo attorno e sono certa di ricordare come raggiungere il centro cittadino. Mi aspettano, per pranzo, un gruppo di italo-svizzeri. Mangeremo Bratwurst, penso – invece, scoprirò poi che i miei commensali hanno riservato, forse in mio onore, un tavolo a un’osteria italiana.
Sono un po’ in anticipo e mi viene in mente di fare un gioco. Farò finta di non parlare il tedesco. Neanche un po’. Riuscirò a farmi dare indicazioni per il centro? Troverò qualcuno, casualmente, che parli come me in questa città nella quale l’italiano è la seconda lingua straniera più diffusa tra i residenti e dove trovano la loro sede il Consolato onorario d’Italia e un’importante cattedra universitaria di italianistica? In questa città che è guidata da una sindaca italo-svizzera e si trova a due passi dai Grigioni, aventi l’italiano quale lingua ufficiale cantonale?
So che il mio esperimento non ha alcuna validità scientifica, ovvio. Forse avrò fortuna, forse no. Anche se l’italiano è lingua nazionale in Svizzera, penso sia necessario un “sano” realismo. È come se un turista si mettesse a chiedere informazioni in tedesco alla gente per le vie di Lugano. Andrebbe molto lontano?
La prima persona che avvicino, salite le scale della stazione, è giovane con una borsa per computer portatile. La porta a tracolla. Potrebbe essere uno studente universitario o un praticante in qualche azienda informatica. Pare in attesa. Chissà di chi. O di cosa. Gli chiedo come arrivare a Marktplatz. Lui capisce che informazione cerco, anche se la sua spiegazione arranca. Cerca di farsi capire. Fatica a declinare i verbi e non trova le parole. Mi è simpatico e decido di non insistere. “Ok, grazie,” e prendo commiato.
La linea del tram è là, dove l’ho lasciata, l’ultima volta, ormai oltre 6 anni fa. Se la seguo, proseguendo sempre diritto, passando accanto alla fermata del bus che porta in università, arrivo proprio in centro. Penso che, da dove mi trovo, sia piuttosto facile dare indicazioni per arrivare a Marktplatz. Allora scelgo di fare una piccola deviazione. Ritrovo il panificio, meta obbligata per comprare il pane dolce con uvetta. Attraversata la strada, mi dirigo verso il Neumarkt, zona della città dove aveva sede la scuola di lingua presso la quale frequentavo un corso di tedesco.
Una giovane, con un figlio piccolo nel passeggino e uno su una bicicletta in legno senza pedali, mi sembra la persona giusta a cui chiedere indicazioni. Con lei sarò intransigente, mi dico. Mi rivolgo alla donna un italiano. Ma lei non mi capisce. Nemmeno una parola.
Poco distante, due uomini sono seduti su una panchina. Fa freddo ma paiono non sia per loro un problema. Avranno una settantina d’anni, o forse più. Non sono mai stata brava a indovinare l’età della gente. Li ascolto e mi sorprendo: capisco esattamente tutto quello che dicono! Per un attimo penso di essere davvero brava a comprendere lo switzerdütsch, lo svizzero tedesco. Ma troppo presto realizzo che stanno parlando in italiano. Allora li ignoro. Non sono di interesse per il mio esperimento.
Arrivo sulla Vadianstrasse, con la banca Raiffeisen all’angolo. Un gruppo di ragazzi e ragazze ride e chiacchiera animatamente. Hanno zaini in spalla e mi chiedo se non dovrebbero essere a scuola. Con loro ho fortuna. Due parlano l’italiano – uno anche molto bene.
Guardo l’ora e è quasi il momento di raggiungere davvero la mia meta. Ancora persona alla quale chiedere indicazioni, però, la cerco. Mi guardo attorno. Rido tra me, perché mi domando se il mio sguardo sia in qualche modo circospetto… A chi potrei avvicinarmi?
Scelgo una donna che indossa una sciarpa di lana molto spessa, bianca. Bianca come la neve, di cui è rimasta poca traccia in città. Ho fortuna, uso parole semplici, parlo lentamente. Lei mi comprende perfettamente e riesce a spiegarmi la via per raggiungere la mia destinazione. “Lei arriva là tra 5 minuti”. Solo quel tra al posto di in cinque minuti e la r particolarmente marcata indicano che non è madrelingua.
Ed eccomi, dove sono attesa per la riunione. Mi accoglie un gruppo di persone che passano, con naturalezza impressionante, dall’italiano (principalmente con me) allo svizzero tedesco, che usano tra loro. Sono italofoni, alcuni figli della prima emigrazione dall’Italia, altri nati e cresciuti qui. E c’è chi ha imparato l’italiano per incarichi di lavoro. Stiamo cercando, insieme, di promuovere un progetto volto alla valorizzazione della lingua di Dante in Svizzera.
Gustando un risotto – che è quasi buono come quello che preparano i grotti ticinesi! – i miei colleghi di pranzo mi inondano di nominativi di persone, autorità cittadine, ma anche gente senza alcun incarico istituzionale, che hanno un unico comune denominatore: la tutela per la lingua e cultura italiana in Svizzera. Sono davvero tanti contatti. Concludendo il pranzo con un espresso dal gusto corposo, penso alla particolarità di questo Paese, e alla fascinazione che la lingua italiana esercita, così profondamente, oltralpe. Per quanto ancora sarà così?