“Il rock al tempo di Mussolini”, romanzo menzionato dal Premio Giacomo Matteotti

“Il rock al tempo di Mussolini” è il recente libro di Enrico Varrecchione, romanzo che gli è valsa, lo scorso ottobre, la menzione di lavoro meritevole nel contesto del Premio intitolato alla memoria di Giacomo Matteotti XVIII edizione.

Avevo conosciuto Enrico (classe ’87) per il suo impegno nei confronti degli italiani residenti in Scandinavia, culminato a inizio 2022 con la creazione di un blog (La Scandinavia) il cui obiettivo è informare i connazionali di quanto accade tra Norvegia, Svezia, Islanda e anche Finlandia, rendendo accessibili in lingua italiana informazioni sulla politica, società e cultura del Nord che altrimenti, per questioni linguistiche, molti dei nuovi arrivati non potrebbero conoscere. E io, interessata alla policromia dell’italianità all’estero, a questo mondo di “noi” che viviamo altrove, mi ero fatta incuriosire dal lavoro di Enrico. Salvo poi scoprire del premio Giacomo Matteotti e quindi delle sue capacità di narratore, non solo di giornalista. 

Il suo libro è arrivato per posta un mercoledì mattina di pioggia, poco prima che uscissi per andare in ufficio. Circa 150 pagine e una copertina che, benché l’avessi già vista online, continuava a mettermi a disagio. In primo piano, una figura in camicia nera con una chitarra elettrica al collo. Così mi sono ritrovata a pensare se fosse opportuno leggere quel libro nel tragitto verso il lavoro. Mi disturbava il pensiero degli sguardi che avrei potuto ricevere esibendo quel titolo e quella copertina, magari proprio scendendo alla stazione di Bruxelles-Schuman, nel cuore dell’Ue. D’altra parte, continuavo a pensare a come la riflessione sul fascismo non possa essere di natura “privata”. Dovevo portare “Il rock al tempo di Mussolini”sul treno, nei café, sul bus, fuori insomma, esattamente per evitare di relativizzare il giudizio sul regime. Così è stato. E in un vagone di due piani, ho aperto il romanzo e iniziato a leggere. 

Sono tornata a pochi mesi fa, nel pieno della pandemia. La storia narrata da Varrecchione inizia infatti un giorno di febbraio del 2020, quando il virus Covid-19 aveva appena iniziato a farsi conoscere: un giovane, Manuel, scopre grazie al lavoro iniziale di un giornalista, Fabrizio, una storia familiare a lungo nascosta e che lo riguarda. Suo nonno Armando, secondo la testimonianza raccolta dallo stesso Fabrizio, una volta ritornato con la famiglia dagli Stati Uniti in Italia in seguito a disavventure familiari, aveva fondato un gruppo di musica rock (i Mogano) di grande successo. Correvano gli anni del regime fascista. 

Quella “del nonno musicista” è una scoperta toccante dal punto di vista personale e altresì importante per il mondo musicale che spinge i giovani a mettersi sulle tracce di un possibile disco contenente le canzoni di quello che sembrerebbe il primo gruppo rock nella storia italiana e, addirittura forse, nel mondo. Perché i Mogano cessarono di esistere; quale fu la sorte dei suoi membri (tra i quali si contavano due ragazzi ebrei e un professore, oppositore del fascismo)? La ricerca li porta a scoprire cosa ne fu dei membri del gruppo, svelando la tragicità di scelte individuali che segnarono il destino dei musicisti e rivelando tutta l’ambiguità e la banalità di cui l’Uomo è capace.

Pagina dopo pagina, Varrecchione dispiega vicende di deportazioni, imboscate, fughe, dolore, amore. Racconta di emigrazione – quella degli italiani in America – e di rimpatri forzati nell’Italia fascista; delle difficoltà a integrarsi in luoghi che dovrebbero essere naturalmente percepiti come “casa”, di estraniazione, alienità, affiliazioni indotte dal desiderio di sentirsi parte di un tutto, amicizie, tradimenti, lutti e perdono.

Le pagine del romanzo scorrono veloci, a volte anche troppo, descrivendo i legami divisivi e diversi del nonno e dei pro-zii di Manuel con il fascismo. Non è un libro storico; non è la Storia del regime che interessa quanto piuttosto la storia con la s minuscola di un fantomatico gruppo musicale del nord Italia. Traspare, certo, la posizione dello scrittore sulla vergogna delle leggi razziali e le violenze fasciste, ma non c’è moralismo. Mai la narrazione è colorata con giudizi sospesi e emozioni di una qualche sorta. Le atrocità del regime sono fatti, eventi accaduti, deplorevoli e che devono essere condannati; insomma parlano da sé, sembra suggerire l’autore del romanzo. Non c’è altro da aggiungere. 

A caricare di significanza le vicende narrate sono “le circostanze” in cui i singoli si trovano e con le quali si confrontano. Per seguire la propria passione musicale, il nonno di Manuel si avvicina opportunisticamente alle camice nere, suona per le camice nere; per un egoistico senso di amore “vende” l’amico, il compagno, al regime; con silenzioso rimorso, rincorre amicizie coltivate negli Stati Uniti e cerca di salvare il salvabile. “Cosa sarebbe stato dei Mogano se fossero riusciti a proseguire la propria attività?” – si legge ad un certo punto nel romanzo. La risposta è che non importa. Anzi, – mi chiedo – la domanda è lecita? Non si rischierebbe di dimenticare aprendo, di fatto, la strada a una rimozione della dimensione storica del fascismo e alla cancellazione delle tracce e delle eredità dell’antifascismo?

Mi incuriosisce sapere cosa ne pensi Enrico di questa “memoria storica”. Anche lui teme che la memoria stia comparendo tra la nostra generazione di quarantenni e trentenni? Così lo chiamo, e subito risponde.

«Più che i trentenni e i quarantenni, mi preoccupa la memoria che avranno i bambini che oggi frequentano le scuole elementari, se non altro perchè la mia generazione ha fatto in tempo a conoscere i partigiani o i sopravvissuti all’Olocausto che venivano a parlare nelle scuole, persone che oggi, purtroppo, stanno scomparendo o sono molto anziane», afferma Enrico, «Questo non significa che fra i miei coetanei non vi siano persone che, per svariate ragioni, credono che quello fosse un periodo da onorare e commemorare. Il motivo ce lo spiega molto bene il professor Alessandro Barbero, quando dice che, come per molte altre cose, i valori che portiamo avanti spesso sono quelli che ci hanno ispirato i nostri genitori, a loro volta ispirati dai nonni e così via. È immaginabile pensare che, almeno prima della guerra, il fascismo godesse di un ampio sostegno della popolazione e, quando le cose si sono messe male, una parte di queste persone ha continuato a credere che Mussolini avesse ragione a combattere i “banditi” e stare dalla parte di Hitler e poi ha trasmesso questi concetti alle generazioni successive». 

Anche oggi le cose non vanno alla grande, rifletto con Enrico, che scopro essere particolarmente curioso e interessato di storia «Riprendendo sempre Barbero, ci avviamo verso una fase in cui il mito della Liberazione viene meno, perché non abbiamo più chi può testimoniarla in prima persona. È un destino condiviso in parte con il Risorgimento. La letteratura può servire, così come ci può aiutare anche capire il motivo per cui il fascismo ha preso il potere in Italia e che cosa ha significato oltre agli episodi più evidenti come le leggi razziali, la guerra o le persecuzioni agli oppositori: l’impianto su cui si era retta l’Italia per circa 60 anni dall’Unità era debole e non era riuscito a resistere né alla Grande Guerra né alla progressiva industrializzazione del paese e la nascita dei movimenti operai. Quello è il momento in cui il fascismo trova sbocco, anche perchè le alternative erano uno stato liberale che si stava sgretolando oppure una rivoluzione di stampo sovietico che avrebbe condotto alla guerra civile (come ad esempio accaduto in Finlandia e Ungheria)».

Fa freddo a Bruxelles, da dove scrivo. Chissà che gelo in Norvegia, dove abita Enrico. Mi riscaldano un po’ le parole con le quali il giovane mi saluta, parole che sono un invito a non rimanere immobili, di ghiaccio: «Il regime, come in tutti i totalitarismi, incluse le autocrazie odierne, prosperava dove era in grado di comprare il consenso e, avendo fatto tabula rasa dell’opposizione, non c’era nessuno a chiedere conto della vasta corruzione che imperversava».

Abbiamo ancora la possibilità di scegliere. Per ora. 

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