Io parlo (anche) italiano

Nel nord dell’Australia, all’estremità occidentale di Cape York, vivono i Kuuk Thaayorre, una piccola tribù aborigena, che ha una capacità straordinaria di orientarsi anche in spazi sconosciuti. E lo sa fare sia di giorno sia di notte. La tribù, i cui membri riescono a distinguere istintivamente il punto cardinale verso cui sono rivolti, ha anche un’altra caratteristica, che ha a che fare con la lingua. Gli aborigeni del Kuuk Thaayorre definiscono lo spazio senza ricorrere a parole quali ‘destra’, ‘sinistra’, ‘avanti’ e ‘indietro’; utilizzano invece i punti cardinali. Insomma, direbbero frasi del tipo: “Ho lasciato qualche cosa sul bordo meridionale del tavolo occidentale”.

Dopo che ho letto dell’esistenza di questa tribù, mi sono ritrovata, ancora una volta ma sempre con la stessa intensità, a chiedermi che ruolo esista tra lingua, percezione e descrizione del mondo. E, più in generale, perchè tutelare la mia lingua madre (esercitandola e insegnandola anche ai miei figli, che in Italia vanno solo a fare le vacanze).

Insomma la domanda è: la lingua che parliamo ci rappresenta? E Rappresenta il mondo in cui viviamo? Secondo alcuni filosofi ma anche neuroscienziati, la risposta è sì! Nel caso dei Kuuk Thaayorre, la loro lingua li obbliga abitualmente a pensare ai punti cardinali, formando la loro ‘specifica’ visione del mondo, anche dal punto di vista spazio-temporale. Che l’apprendimento della madrelingua sia legata all’acquisizione di determinati schemi di pensiero possiamo verificarlo anche senza andare dall’altro capo del mondo. Un amico anglofono al telefono, raccontandoci di una cena in compagnia, ci direbbe: “I had dinner with a friend”, senza specificare se abbia cenato con un amico o amica. Friend vale sia per maschio che per femmina. Gli anglofoni non devono considerare la questione del ‘genere’ ogni volta che si trovano in una conversazione.  L’italiano, per fare un esempio, ci obbliga invece a esplicitare se stiamo parlando di un maschio o di una femmina. Mettendo in condizione di dover specificare un certo tipo d’informazione, la lingua ‘costringe’ il parlante ad essere attento a certi dettagli del mondo e aspetti che utilizzando altre lingue potrebbero non essere rilevanti in un dato momento. 

A seconda dell’idioma di partenza, differenze di significato, composizione delle frasi, così come la semplice grammatica, tutto ciò porta a diverse interpretazioni dello stesso evento, della stessa ‘cosa’. Si pensi ai molti nomi inanimati che in una lingua sono maschili e nell’altra femminili. Un ponte tedesco è femminile (die Brücke), ma in italiano è maschile; e lo stesso vale per appartamento, forchetta o giornale. Mela è invece maschile per i tedeschi ma femminile in italiano. Risalgono agli anni Novanta i primi studi che hanno mostrato come alla richiesta di classificare vari oggetti su una gamma di caratteristiche, gli oratori attribuivano più “proprietà virili” agli oggetti maschili, mentre ricorrevano ad aggettivi più eleganti se l’oggetto era preceduto da un articolo femminile. 

Questo non significa che la nostra lingua madre sia la prigione della nostra visione del mondo. Eppure, le abitudini mentali che la nostra cultura – espressa attraverso la lingua – ci ha instillato, modellano il nostro orientamento emotivo verso il mondo e verso gli oggetti che incontriamo, fino ad avere un impatto sulle nostre convinzioni, valori e ideologie. Insomma, la nostra visione del mondo è fortemente condizionata da fattori linguistici e culturali che sono poi strettamente legati e interconnessi tra loro.

Alla luce di queste osservazioni, che spazio trova il plurilinguismo linguistico? Saper parlare molte lingue rappresenta, per esempio, una minaccia per la lingua madre? Secondo me, no. Pensiamo alla lingua italiana: per essa la minaccia, se così vogliamo dire, potrebbe arrivare dal globalismo linguistico, ovvero dalla presenza crescente di forestierismi, quali termini internazionali (e soprattutto inglesi) nel lessico quotidiano. Si può, si deve, oggi, saper parlare in inglese (e perché no, anche altre lingue): il problema è quando la conoscenza dell’inglese non è preceduta da un’acquisizione dell’italiano come lingua del pensiero. Il risultato è un pensiero senza struttura alcuna; un tweet il cui contenuto non viene strutturato. In profondità. Insomma, possiamo anche fingere di pensare tutti allo stesso modo, arrivando a dialettizzare l’italiano. Oppure, come primo passo verso la comprensione reciproca, possiamo riconoscere che quando parliamo mettiamo in atto una serie di processi non solo cognitivi ma anche psicologici ed emotivi, dei quali non siamo nemmeno sempre consapevoli, ma che influenzano le nostre interazioni. Ecco perché ogni lingua va tutelata. La diversità linguistica delle minoranze promossa. E l’italiano, anche fuori dall’Italia, salvaguardato.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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