La falsa sicurezza delle armi

Alessandro Vaccari e "la falsa sicurezza delle armi", con Valeria Camia

“È davvero insufficiente l’attuale spesa militare? O la crisi ucraina rischia di essere un provvidenziale alibi per rilanciare-ammesso che ce ne sia mai stato bisogno- il comparto dell’industria bellica?” si chiede Luca Liverani su Avvenire di fronte alla corsa generalizzata al riarmo che l’invasione russa dell’Ucraina ha accelerato. 

All’interno della Nato gli Usa sollecitano da anni i Paesi europei membri dell’alleanza a farsi maggiormente carico delle spese militari e ora uno dopo l’altro questi Paesi i stanno prendendo impegni vincolanti per incrementarle in modo significativo.

Il 27 febbraio scorso il cancelliere tedesco Scholz ha annunciato lo stanziamento di 100 miliardi annui per il riarmo del Paese che costituisce in pratica un raddoppio delle spese attuali e segna soprattutto una svolta rispetto alla tradizionale prudenza tedesca in ambito militare, dopo la catastrofe nazista. Un incremento analogo è previsto da Macron per la Francia mentre in Italia il 16 marzo la Camera ha approvato in modo plebiscitario una mozione che impegna il governo a portare le spese militari, nei prossimi anni, al 2% del Pil, con un incremento di dodici miliardi rispetto alle spese attuali, corrispondente in percentuale a un + 47%.

In realtà la Nato, come scrive Andreas Missbach, direttore di Alliance Sud, ha già ora una netta superiorità militare rispetto alla Russia che verrebbe  ulteriormente incrementata.

I dati forniti dal Sipri, l’Istituto di studi per la pace di Stoccolma segnalano che già nel 2020 i ventisette Paesi dell’Ue hanno investito in un anno 232, 8 miliardi di dollari, una cifra quattro volte superiore a quella della Federazione russa. A partire dal 2016 gli stessi Paesi hanno già incrementato del 24,5% le spese militari e l’Italia è passata da 21,5 miliardi nel 2019 a 25,8 previsti per quest’anno.

A partire dal 2015 la Nato nel suo complesso ha investito una somma 14 volte superiore a quella della Federazione russa. La mancanza di coordinamento della spesa fra i vari Paesi dell’Ue, frutto anche dell’assenza di una politica estera e di difesa comune, aumenta notevolmente gli sprechi e fa pensare che il vero interesse di ciascun Paese sia in realtà quello di favorire le industrie nazionali. In tal modo però gli interessi europei, non necessariamente coincidenti con quelli degli Usa, rimangono subordinati a quelli del Paese egemone della Nato.

In questo contesto appare sconcertante che l’impegno preso in sede Onu già nel 1970 e ribadito dall’Agenda 2030 di destinare lo 0,7% del Pil di ciascun Paese alla cooperazione internazionale sia largamente disatteso da molti Paesi, fra cui l’Italia e la Svizzera.

Anche in Svizzera sono previsti consistenti aumenti delle spese militari e lo scoppio della guerra ha suscitato nella Confederazione un vivace dibattito interno; alcuni settori politici ritengono necessaria una maggiore collaborazione fra l’esercito svizzero e la Nato, mentre altri vedono in questo un pericolo per la neutralità del Paese.

Inoltre, ambienti vicini all’esercito vorrebbero accelerare l’iter per l’acquisto, già deciso dal Consiglio federale, dei caccia F35, senza aspettare l’esito dell’iniziativa che vorrebbe impedirlo.
Naturalmente questo consistente riarmo sta già producendo notevoli profitti per le industrie legate al settore militare i cui titoli volano in borsa, in un momento in cui si registrano pesanti arretramenti generalizzati di tutti gli indici azionari.

In Italia Il gruppo italiano Leonardo-Finmeccanica, che è il terzo gruppo europeo nel settore dell’industria militare, prevede cospicue commesse non solo dall’Italia ma anche da altri Paesi europei per l’assemblaggio e la manutenzione dei costosissimi caccia F35.

Si profila in tal modo uno sviluppo industriale distorto, foraggiato da ingenti investimenti pubblici indirizzati verso settori militari, a tutto discapito di settori civili il cui sviluppo contribuirebbe molto meglio a rimuovere le cause di conflitti armati e quindi a garantire una vera sicurezza. Si pensi, ad esempio, agli investimenti nel campo della lotta contro il riscaldamento climatico che già rischiano un forte ridimensionamento a causa della crisi energetica in corso. 

Un modello industriale che privilegia il settore militare mostra spesso la sua miopia se si considera che dieci Paesi dell’Ue hanno continuato a vendere armi alla Russia anche dopo l’embargo deciso dopo l’invasione della Crimea del 2014 e fino al 2021 per un valore complessivo di 346 milioni di euro; la guerra in corso presenta il tragico paradosso di armi europee impiegate da entrambi gli eserciti.

Oltretutto, secondo un elementare legge di mercato, le armi, come qualsiasi altro prodotto industriale, sono fatte per essere “consumate” e la loro accresciuta presenza in sostanza acutizza il pericolo di conflitti armati, mettendo a rischio quella sicurezza che pretenderebbero di tutelare.

Mi sono vergognato – ha detto lo scorso 24 marzo papa Francesco – a sentire che alcuni stati vogliono aumentare le spese militari”; questa esternazione è stata non a caso snobbata da molti media o derubricata a sterile petizione di principio, ma in realtà rappresenta una concreta presa di posizione politica, nel senso più nobile e universale della parola. 

Insomma, la pace si costruisce investendo per progetti di pace e il noto detto latino che afferma il contrario appare più che mai discutibile nell’era nucleare.

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Questo blog nasce dall’incontro di tre persone emigrate volontariamente in età adulta dall’Italia in Svizzera e che in questo Paese hanno realizzato esperienze diverse in vari ambiti lavorativi e culturali. 

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