La fine della globalizzazione?

La fine della globalizzazione è vicina. Il mondo globalizzato è in crisi; l’economia globale in affanno; i processi globali arrancano. Quante volte, soprattutto nelle ultime settimane abbiamo sentito o letto queste affermazioni? C’è chi decreta l’inizio di una nuova era, “post-globale”. O autarchico – a seconda delle opinioni. Ma c’è anche chi crede, invece, che nulla stia cambiando…

Chi ha ragione? Ci viene in aiuto un recente articolo pubblicato da Alliance Sud, scritto a più mani da Laura Ebneter, Dominik Gross, Kristina Lanz e Andreas Missbach e titolato “Globalisierung am Ende − oder doch nicht?”. Nel testo è specificato un concetto fondamentale, ma che spesso dimentichiamo: parlando di globalizzazione possiamo riferirci ad almeno due aspetti diversi, sia a un set di prescrizioni di politica economica sia a processi reali, come ad esempio la crescita del commercio internazionale, l’aumento dei flussi di capitale transfrontalieri o il peso delle imprese multinazionali sul mercato. Questi aspetti devono essere tenuti divisi; non hanno relazioni lineari. Ad esempio, si crede che lo smantellamento delle barriere commerciali e dei controlli sui capitali abbia portato al rapido aumento del commercio globale. Ma non è così semplice! Basta pensare alla Cina, protagonista della crescita del commercio mondiale ma anche molto attenta a non eliminare in modo generalizzato le barriere commerciali.

Quando quindi ci riferiamo alle sorti della globalizzazione e ne auspichiamo una nuova modalità di darsi, non si intende la fine del libero mercato e degli scambi economici tra Paesi. L’auspicio suonerebbe poco realistico. Persino alla luce della guerra in corso in Ucraina, come Alliance Sud chiarisce, “è da escludere che la Russia sanzionata unisca le forze con la Cina e alcuni Stati vassalli per formare un’area economica eurasiatica chiusa. L’Occidente (compreso il Giappone) è troppo importante per la Cina dal punto di vista economico”. Similmente, per Michele Ruda, economista della Banca Mondiale, l’economia mondiale sarà certo danneggiata dalla rimodulazione delle catene globali del valore indotta dall’aumento dei rischi geopolitici, ma alcuni Paesi ci guadagneranno e, per di più, ogni cambiamento legato ai processi economici sarà probabilmente graduale piuttosto che improvviso e interesserà in modo diverso settori e prodotti. Non si tradurrà insomma in un’inversione della globalizzazione, a meno che non sia sostenuto da un deciso intervento governativo”. Questo pensiero è evocato anche in un recente articolo del New York Time, dove leggiamo: se i sostenitori della globalizzazione l’hanno troppo spesso caratterizzata come un’inevitabilità storica, coloro che avvertono del suo imminente disfacimento potrebbero essere colpevoli dello stesso errore e è possibile che le sanzioni economiche imposte alla Russia non portino affatto verso l’autarchia degli stati.

Tuttavia, se la globalizzazione come processo reale non è in discussione, le condizioni odierne ci impongono una riflessione “ampia” e teorica sul concetto di globalizzazione. Insomma, è lecito chiedersi che tipo di libero mercato vogliamo. Oggi abbiamo l’opportunità di ripensare la globalizzazione. Meglio non sprecare tale occasione.

Chi scrive concorda con il pensiero di Laura Ebneter, Dominik Gross, Kristina Lanz e Andreas Missbach, secondo i quali ogni futuro intervento della “Politica” dovrebbe mettere al centro la relazione tra economia e l’impegno a garantire pace, libertà, salute e prosperità per tutti. In questo senso, “abbiamo bisogno di una nuova ideologia che, invece di concentrarsi sulla crescita economica perpetua, sulla massimizzazione del profitto e sull’interesse personale a breve termine, si concentri sulle nostre interdipendenze, sul nostro inserimento nell’ambiente naturale e sui nostri interessi comuni a lungo termine”. Inoltre, dobbiamo impegnarci per sostenere un modello economico che miri a realizzare i diritti umani universali per tutte le genti del pianeta, nel solco della vi indicata dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) delle Nazioni Unite nel quadro dell’Agenda 2030.

C’è poi un’ultima osservazione, che riguarda quella che i politologi chiamano “dimensione culturale” della globalizzazione. A partire dal lavoro di Hans Peter Kriesi e colleghi è stato messo in luce come i Paesi europei siano sempre più divisi al loro interno, tra sostenitori di aperture di natura culturale e di giustizia sociale, da un lato, e fautori di posizioni più protezionistiche, dall’altro. Per anni, il “campo di battaglia” sono state le questioni relative all’integrazione europea e all’immigrazione. Oggi, sullo sfondo della guerra in Ucraina, la “globalizzazione culturale” crea nuove fratture, non solo tra nazioni (per legami culturali più o meno intensi con gli Stati Uniti) ma anche all’interno degli stessi Paesi, come dimostrano le tensioni politiche sullo ius scholae (in Italia), il dilemma sul tipo di permesso da concedere ai profughi in fuga (e a quali profughi!), il sostegno a certe popolazioni e non altre (come il caso dei curdi e l’allargamento della Nato “a nord”).

A fronte della crescente complessità “globale” che ci circonda, che non è solo quella dell’economia, della finanza e dei mercati, e che genera paura e incertezze di ognuno di noi, non sono le formule semplificate ad aiutare: la strada da percorrere è quella del dialogo, anche se ciò richiede impegno e fatica. Con un obiettivo: globalizzare la pace.

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