“Sono così simili a noi. Ecco perché è così scioccante… La guerra non è più qualcosa che colpisce popoli poveri e lontani. Può accadere a chiunque”, ha scritto Daniel Hannan sul Telegraph. E il corrispondente della rete statunitense Cbs Charlie D’Agata ha dichiarato (poi scusandosi) che l’Ucraina “non è, con il dovuto rispetto, un posto come l’Iraq o l’Afghanistan, in guerra da decenni… Questa è una città relativamente civilizzata, relativamente europea dove non ti aspetteresti né spereresti mai che possa accadere qualcosa di simile”. La guerra in Ucraina ci riscopre razzisti, là dove siamo in pena per le genti dell’Ucraina e ne accogliamo i profughi respingendo però “quelli che scappano dalle sue invasioni e occupazioni altrove”, come scrive Patrick Gathara, giornalista di Al Jazeera in un articolo apparso su Internazionale?
E’ indubbio che nelle ultime settimane siano riapparsi nel dibattito pubblico termini dei quali non avremmo mai più voluto sentire parlare (genocidio in primis) o voluto occuparcene direttamente, come razzismo, che è, secondo la definizione fornita dal Servizio federale per la lotta al razzismo, una gerarchizzazione di persone o gruppi della popolazione.
Ma c’è di più: l’invasione russa ci spinge a compiere una (forse l’ennesima, ma necessaria) riflessione su quali altri rapporti di potere, esclusioni e privilegi, storicamente, culturalmente e socialmente radicati, ci circondano quotidianamente, al punto che passano inosservati. Qui, dove siamo noi. A casa nostra. Nelle nostre democrazie occidentali. In Europa. Anche in Svizzera.
Atteggiamenti e cori razzisti contro “questa” o “quella” persona fanno sistematicamente capolino nelle pagine di cronaca dei giornali. Così come la violenza di genere e le disuguaglianze salariali tra donne e uomini; le discriminazioni legate al sesso e al genere, al credo religioso e al colore della pelle.
Ma ci sono anche posti fisici, monumenti, vette, ponti e località che visitiamo e che sono custodi di un passato razzista del quale noi poco conosciamo.
In Svizzera, chi volesse confrontarsi con il razzismo “che passa inosservato” benché sia ben visibile nella geografia elvetica può trovare interessante “Memories of Racism”, memorie di razzismo, che si trova nel sito di “Dialogue en Route”, un progetto nazionale di mediazione e educazione alla cittadinanza.
Memories of Racism è una mappa interattiva che permette di visualizzare oltre 42 “fenomeni, simboli e strutture di discriminazione nella storia e nel presente della Svizzera, rendendoli visibili geograficamente e mostrando così la complessità del tema del razzismo sul territorio”.
Pochi sanno, ad esempio, che l’Agassizhorn (monte di oltre 3700m tra i cantoni di Berna e del Vallese) prende il nome dal brillante zoologo e glaciologo svizzero, nonché membro onorario del Club Alpino Svizzero, Jean Louis Rodolphe Agassiz, il quale era un sostenitore della poligenesi (teoria secondo la quale gli afroamericani e i bianchi appartenevano anatomicamente a specie diverse) e della schiavitù.
Nella città di San Gallo, invece, ci sono diverse rappresentazioni di Hermes, il messaggero greco degli dei, che nel sangallese è messo in scena come “dio del commercio”. Una di queste rappresentazioni la si può vedere presso l’edificio dell’attuale ristorante Tibits alla stazione centrale, che era la sede commerciale della “Eidgenössische Bank”. Accanto, due rilievi separati raffigurano “il commercio tra i popoli civilizzati” e “il commercio con i popoli indigeni”.
Cercando Berna sulla mappa “Memories of Racism” ci si imbatte nella triste storia di Karl Tellenbach, un maestro parrucchiere, che visse negli anni Venti del secolo scorso e che era spesso ridicolizzato a causa del suo labbro leporino e della sua parlata nasale. Si tolse la vita nel 1931 dopo che non le fu concessa in sposa, a causa del suo aspetto, l’amata Annemarie Geiser. Simbolo di esclusione e discriminazione, a Tellenbach la città di Berna ha rifiutato un monumento nel 2007.
Chi si trova presso la stazione centrale di Zurigo, poi, non può non vedere la statua dedicata al politico e imprenditore zurighese Alfred Escher, figura di rilievo all’interno della compagnia ferroviaria Schweizerische Nordostbahn (predecessore delle FFS), e coinvolto nella costruzione del Politecnico (ETH Zurigo), del Gottardo, così come l’attuale Credit Swiss e Swiss Life. Eppure, Alfred Escher fu anche una figura controversa, accusato di arricchimento attraverso la schiavitù, cosa già disapprovata all’epoca. Secondo il rapporto dell’Università di Zurigo, il coinvolgimento della famiglia Escher nella tratta degli schiavi nel corso di tre generazioni è andato “oltre ciò che era usuale all’epoca”.
“Memories of Racism” è un bellissimo progetto, che raccoglie varie prospettive a partire dalle quali è possibile avviare una riflessione ampia e seria su quei meccanismi che ci portano a innalzare muri e divisioni. E’ un invito a guardarci “indietro” come collettività (il nostro passato) e “dentro” come individui (che vivono nel presente). Nella convinzione che mappare il nostro razzismo (consapevole o storico) sia un imprescindibile punto di partenza affinché discriminazioni e atteggiamenti razzisti attuali non rimangano qualche cosa che non ci riguarda.